“Noi siamo un dialogo” (Stanghellini, 2017) – un commento

  • di Silvia Noris

La lettura del libro “Noi siamo un dialogo” di Stanghellini mi ha suscitato diverse riflessioni e associazioni di idee, pensieri e immagini; le espliciterò così come mi sono venute, senza dare allo scritto una struttura compatta e coerente.

L’alterità che alberga in noi

Nei capitoli “Il dialogo con l’alterità” (pagg. 38-43) e “Il perturbante e il doppio segretamente familiare” (pagg. 46-49), si parla di una alterità non percepita del tutto come tale, di una parte sentita allo stesso tempo -e con la stessa intensità- intima ed estranea. Si sottolinea la necessità di mantenere un dialogo aperto con essa, poiché “l’incontro con l’alterità è una precondizione necessaria per la salute mentale” (Stanghellini, 2017).

Un’intima connessione e vicinanza non impedisce l’intensa sensazione di inquietudine, quasi di orrore di fronte a questo “esterno che è presente all’interno” (ibid.); al contrario, vicinanza e inquietudine sono indissolubili e mutualmente necessarie. In questo senso “Chi e Che cosa, ipseità e alterità, medesimezza e cambiamento, organismo e persona” (ibid.), che nell’insieme concorrono a formare l’identità narrativa dell’individuo “in quanto forma essenziale di dialogo con l’alterità” (ibid.).

Il significato di persona

Per quanto riguarda il concetto di persona, è interessante ricordare come l’origine etimologica del termine sia quella di maschera teatrale, utilizzata dagli attori per intensificare il suono (per-sonare) della propria voce in modo che fosse udibile anche dagli spettatori più lontani. Il concetto presuppone già in sé, a livello semantico, un pubblico e la questione del riconoscimento: “persona è pertanto colui che è riconoscibile e qualificabile come soggetto di azione, causa del proprio agire” (http://www.treccani.it/enciclopedia/persona/).

A questo punto non posso non citare il meraviglioso film di Ingmar Bergman, Persona appunto:

“Tu insegui un sogno disperato Elisabeth, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere; essere in ogni istante cosciente di te e vigile, e nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa… Questo ti provoca un senso di vertigine per il timore di essere scoperta, messa a nudo, smascherata, poiché ogni parola è menzogna, ogni sorriso una smorfia, ogni gesto falsità”.

L’igiene del corpo e della mente

Sempre in questi capitoli del libro “Noi siamo un dialogo” di Stanghellini, con la considerazione che il corpo è a tutti gli effetti la parte più intima della identità personale, mi è venuta in mente la riflessione che fece una docente universitaria durante il corso di Biologia, secondo la quale il tubo digerente, pur essendo -in termini di spazio occupato-dentro il corpo, in realtà è esterno ad esso -in termini di sostanza ontologica- per tutta la sua lunghezza, avendo due aperture agli estremi (bocca e ano). La conclusione che la docente ne traeva era che i cibi introdotti in questo spazio esterno dentro, devono sì essere puliti, ma non certo sterili, a differenza di ciò che viene introdotto nel dentro interno (ad esempio con le iniezioni) che al contrario deve essere sterile per non causare infezioni.

Volendo perseverare -pur senza intenzione- nella logica cartesiana, durante la lettura di tutto il testo è stata infatti costantemente presente l’immagine del parallelo “biologico” del discorso che veniva delineato sul piano della salute mentale. L’occidente moderno è caratterizzato da un’igiene (degli ambienti, del corpo, degli alimenti) che possiamo definire in molti casi eccessiva (www.corriere.it/salute/malattie_infettive/17_febbraio_16/quando-troppa-igiene-fa-male-non-solo-bambini-f17232b2-f45c-11e6-9cca-0c3deaabbf55.shtml).

Concezione di salute e malattia

Inoltre, l’ideale di pulizia si avvicina molto alla sterilizzazione (pensiamo alla pubblicità dei prodotti per la pulizia della casa in cui si promette l’eliminazione del 98% o del 99,9% dei batteri); questo ideale deriva dalla concezione stessa di salute e di malattia che abbiamo, regalataci in parte anche dalla teoria di Pasteur: le malattie sono causate da microrganismi che entrano nel nostro corpo. Cosa c’è di più Altro di un batterio che entra nel mio corpo facendomi ammalare?

L’idea di cura che consegue a una concezione di malattia di questo tipo, che è ancora ad oggi quella più accreditata (almeno tra l’uomo comune, ma non solo), passa sostanzialmente per la distruzione sistematica, soprattutto attraverso l’uso degli antibiotici, dei batteri. Secondo la vulgata, bisogna impedire che questi microrganismi trovino un ambiente favorevole al loro insediamento; se ciò è impossibile da evitare, l’Altro invasore deve essere annientato ad ogni costo.

Microbiota e microbioma

Purtroppo per questo modello medico, e per noi che lo abbiamo seguito a lungo, l’Altro in questione non si fa annientare facilmente: l’antibiotico resistenza causa ogni anno migliaia di morti (vedere ad esempio: http://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/sanita/2019/03/13/-in-italia-primato-decessi-per-antibiotico-resistenza-_7abb69cf-5259-4af3-b86e-3ec48be4a0e7.html). Inoltre,  diverse ricerche hanno dimostrato come la maggior parte della “nostra” componente genetica (il microbioma umano) non è propriamente nostra, ma viene espressa da quella popolazione microbica che vive con il nostro corpo e che forma nel suo insieme quello che viene chiamato microbiota (vedere ad esempio: https://microbioma.it/gastroenterologia/microbiota-e-microbioma-quale-differenza/).

La Psiconeuroendocrinoimmunologia

La Psiconeuroendocrinoimmunologia, modello scientifico che si propone di studiare la comunicazione tra i vari sistemi biologici e la psiche, presuppone un’influenza reciproca tra questi sistemi e l’ambiente, sostenendo come il microbiota abbia un coinvolgimento notevole nell’attività metabolica, negli stati psicologici e nel funzionamento del sistema immunitario (vedere ad esempio: https://sipnei.it/wp-content/uploads/2013/05/20130102151117_pneinews6-2012-ridotto.pdf  o https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/pediatria/allergie-pediatriche-sporco-e-batteri-proteggono).

A questo proposito, mi sembra interessante far notare che il funzionamento del sistema immunitario  si basa sulla distinzione tra self (strutture endogene e, nella definizione più recente, esogene che non costituiscono un pericolo) e non-self (strutture esogene o endogene che costituiscono un pericolo) e che la maturazione dei linfociti T, responsabili della risposta immunitaria adattiva, avviene nel timo (vedere ad esempio: http://www.treccani.it/enciclopedia/timo-organo_%28Dizionario-di-Medicina%29/ ).

L’umore ha a che fare col riconoscimento dell’Altro?

Curiosamente, il nome di questo importantissimo organo ghiandolare, deriva dalla parola thymos (θυμός), che in greco antico indicava la facoltà dell’anima che riguarda l’emozione e la tumultuosa energia vitale (http://www.geagea.com/11indi/11_14.htm), e che oggi viene usata per formare termini psicologici e psichiatrici che riguardano l’umore e le emozioni, come ad esempio eutimia, distimia, ciclotimia, atimia, alessitimia, ecc. Quindi l’umore ha qualcosa a che fare con il riconoscimento dell’Altro?

Possiamo pensare che questa idea di salute e malattia, secondo la quale quest’ultima è veicolata nella maggior parte dei casi da un Altro malevolo, sia la medesima anche nel campo della salute/malattia mentale? Dove l’Altro non è in questo caso un batterio, ma l’alterità che ci abita, nostro malgrado, e senza la quale la nostra stessa esistenza non sarebbe possibile (ci insegna Hegel), come nel caso del microbiota. Mi chiedo dunque se il nostro tempo non sia caratterizzato da una eccessiva igiene affettiva e relazionale, nel senso di una spasmodica ricerca della non contaminazione con l’Altro.

E allora, forse, alcuni quadri psicopatologici sono la controparte psichica di malattie autoimmuni (in cui il corpo attacca le proprie cellule e i propri organi, il self) e allergie (in cui il corpo reagisce in maniera eccessiva a un agente esterno innocuo), così tipiche di questo periodo della storia occidentale.

L’habitus neoliberista

Leggendo il capitolo “Habitus” (“Noi siamo un dialogo” di Stanghellini, pagg. 53-55), in cui viene spiegato come siano degli schemi impliciti ed automatici di azioni a guidare le interazioni sociali, secondo uno stabile “prototipo di relazione Sè-con-l’Altro” (Stanghellini, 2017), mi sono invece chiesta quale habitus di relazione con l’altro sia tipico e funzionale al mantenimento dell’equilibrio sociale nell’epoca dominata dalla visione neoliberista, che spazia incontrastata in tutti i campi dell’umano.

Byung-Chul Han sostiene che “il tempo in cui c’era l’Altro è passato” (Han, 2017), non ve n’è più traccia nell’epoca della ipermodernità, dell’iperconsumo e dell’ipercomunicazione; l’assenza di una controparte dialettica produce una massa informe.

“La rete si trasforma oggi in un particolare spazio di risonanza, in una camera di risonanza dalla quale è eliminata ogni alterità, ogni estraneità. La vera risonanza presuppone la vicinanza dell’Altro. Oggi la vicinanza dell’Altro cede il posto all’assenza di distanza dell’Uguale. La comunicazione globale ammette solo Altri uguali o Uguali altri. Nella vicinanza è inscritta la lontananza quale controparte dialettica. L’abolizione della lontananza non genera maggiore vicinanza, bensì la distrugge. Al posto della vicinanza sorge una totale assenza di distanza. Vicinanza e lontananza sono intessute l’una nell’altra, una tensione dialettica le tiene insieme” (ibid.).

L’Altro nell’era globale

La globalizzazione consente, pena l’espulsione dal sistema, solo alterità che possono essere espresse in forme commerciali e consumate rapidamente, mentre l’Altro si sottrae alla valorizzazione economica e alla logica del profitto. L’Altro è un mistero, un enigma, che si sottrae allo sfruttamento; la (sua) conoscenza è un processo, che ha la temporalità della maturazione, della trasformazione. La politica neoliberista non consente il tempo dell’altro, perché è un tempo improduttivo.

Ma il tempo dell’Altro è anche essenziale alla costruzione del sé, perché “il crollo del familiare orizzonte di comprensione genera angoscia, ed è solo nell’angoscia che si dischiude per l’Esserci la possibilità di accedere al suo più proprio poter-essere” (Han, 2017). “Non possiamo intendere l’identità della persona ignorando la dimensione temporale dell’esistenza umana” (Stanghellini, 2017). Cosa succede dunque, se alla dimensione temporale fatta di passato, presente e futuro se ne sostituisce una fatta di presenti puntuali?

Il narcisista e il depresso

Citando Han, possiamo ipotizzare due habitus patologicamente preponderanti ai giorni nostri. Quello del narcisista: “La negatività dell’Altro conferisce al Medesimo forma e misura. In sua assenza si arriva alla proliferazione dell’Uguale. […] Il narcisismo invece è cieco di fronte all’altro. L’altro così viene lungamente piegato finché l’ego non vi si riconosca: il soggetto narcisistico percepisce il mondo soltanto nelle sfumatura di se stesso. Conseguenza fatale: l’Altro scompare, il confine fra il sé e l’Altro svanisce, il sé fonde e diventa diffuso. L’io annega nel sé. Un sé stabile nasce invece solo nel confronto con l’Altro, mentre l’eccessivo e narcisistico riferimento a sé genera un sentimento di vuoto” (ibid.).

E quello del depresso:

“Secondo Alain Ehrenberg, il diffondersi della depressione è una conseguenza del perduto rapporto con il conflitto. L’attuale cultura della prestazione e dell’ottimizzazione non ammette alcuna gestione del conflitto, perché essa richiede molto tempo. L’attuale soggetto di prestazione conosce soltanto due condizioni: funzionare o rinunciare” (ibid.).

Il rischio del politicamente corretto

A proposito dell’importanza del conflitto nella costruzione identitaria e del suo ruolo nel mantenimento di uno stato di salute, non posso non pensare al concetto di politicamente corretto, inteso come atteggiamento con cui, dietro alla motivazione del necessario rispetto per tutti, di fatto il conflitto viene sistematicamente evitato, annacquando linguaggio e posizioni.

Un libro per bambini, che ci è stato regalato tempo fa, mi sembra paradigmatico in questo senso. Parla di una piccola nuvola blu, che se ne sta in disparte rispetto alle altre nuvole e si rifiuta di far piovere, preferendo andare a zonzo per il mondo e lasciando tracce di blu al suo passaggio. Ecco cosa succede:

“Un giorno, mentre se ne andava a spasso, si accorse di una gigantesca nuvola di fumo nero che saliva dalla terra. Scese incuriosita e vide un città divorata dalle fiamme. Si avvicinò ancora di più e si imbatté in una scena di massacro. I bianchi uccidevano i neri, i neri massacravano i rossi, i rossi davano la caccia ai gialli e i gialli ai bianchi. Inorridita di fronte a tanta violenza, la nuvola blu prese una decisione importante. Per spegnere completamente le fiamme si lasciò piovere e scatenò un diluvio di acqua blu. Svuotata fino all’ultima goccia, la nuvola blu scomparve. Sulla terra gli incendi furono domati. Tutto quanto adesso era blu. Gli uomini smisero di colpo di combattere perché erano dello stesso colore” (Ungerer, 2012).

Amen, con buona pace delle diversità. Ma davvero non esiste nessuna altra possibilità di gestione del conflitto, che non sia l’arrivo di una forza dall’alto che annulla all’istante le differenze? Nel dubbio, alla seconda lettura, ho archiviato il libro.

Dispiegamento e panottico

Riguardo al concetto di dispiegamento, trattato nel capitolo omonimo (“Noi siamo un dialogo” di Stanghellini, pagg. 192-201), mi sorge un dubbio. Ho compreso il senso di quando viene scritto, riguardo l’importanza di “portare alla luce nel massimo dettaglio” (Stanghellini, 2017) il quadro soggettivo in cui si inserisce l’esperienza del paziente, in modo che la cornice di senso diventi visibile e comprensibile anche per il terapeuta. Tutto ciò mi è chiaro, e mi risulta condivisibile, tuttavia non ho potuto evitare una spiacevole sensazione, quella che avrei di fronte a un frugare inopportunamente voyeuristico durante una visita ginecologica.

Dispiegare significa raddrizzare una piega, aprila, facendole per ciò stesso perdere la funzione per cui esiste(va), ed esaminarla in profondità. In questo senso mi pare quanto meno un intervento invasivo, se non addirittura una pratica violenta, che mi ricorda vagamente il panottico di Bentham, in cui per i detenuti non esistono punti ciechi in cui potersi rifugiare, rimanendo esposti a 360°. Inoltre dispiegamento è un termine che viene utilizzato anche in campo militare (pensiamo all’espressione “dispiegare l’esercito” o “dispiegamento di forze armate”), nascondendo un’attitudine bellicosa (nel migliore dei casi difensiva) che non mi suggerisce nulla di buono e che mi appare assai lontana da un atteggiamento terapeutico in senso lato.

L’Altro è un mistero

Secondo la mia opinione, tutti i passaggi trasformativi della vita, dal rito di passaggio alla morte, passando per la psicoterapia, si caratterizzano per un movimento verso l’ignoto, un andare incontro al mistero. “Lo stesso mistero non è semplicemente un significato velato e nascosto che occorrerebbe svelare, bensì un’eccedenza di significati che non può risolversi nel significato: il mistero non è svelabile perché, si potrebbe anche dire, esso è il velo stesso” (Han, 2017).

Il presente articolo è riproducibile, in parte o in toto, esclusivamente citando autore e fonte

(Silvia Noris – www.silvianoris.it)

BIBLIOGRAFIA

  • Han, B. (2017). L’espulsione dell’Altro. Milano: Nottetempo
  • Stanghellini, G. (2017). Noi siamo un dialogo. Antropologia, psicopatologia, cura. Milano: Raffaello Cortina Editore
  • Ungerer, T. (2012). La nuvola blu. Milano: Mondadori Electa S.p.A.

FILMOGRAFIA

  • Persona (1966). Regia di Ingmar Bergman

 

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