Dopo più di cent’anni di dibattito, ancora non si sa quante parole abbiano gli eschimesi per dire “neve”.
Le indagini antropologiche e linguistiche sugli Inuit e sugli altri popoli delle zone artiche (il primo antropologo a parlarne fu Franz Boas nel 1911) non sono mai riuscite a trovare un accordo sul tema: chi sosteneva fossero 5, chi 27, chi addirittura 100, ma proprio questa varietà di risultati dissonanti contribuirà col tempo a screditare l’intera ricerca.
L’aneddoto – ormai arcinoto da decenni – è finito nel tritacarne del dibattito giornalistico più spiccio che l’ha frettolosamente classificato come “leggenda metropolitana” (quando ancora questo concetto lo si poteva esprimere in italiano). Prima di cestinare l’intera questione ho però sentito la necessità di andare a fondo: ciò che mi importava non era appurare il conteggio reale delle parole eschimesi per dire “neve”, ma il concetto che questa molteplicità di termini sottintendeva e che trovo illuminante. Bene ho fatto a dargli spazio, perché nel frattempo quella che era stata bollata come “bufala” ha trovato nuova attendibilità negli studi più recenti, i quali hanno confermato la tesi originaria di Boas.
Dunque secondo K.D.Harrison (“The last speakers” – 2010) gli Yupik, abitanti dell’Alaska occidentale, nominano almeno 99 distinte formazioni di ghiaccio marino.
E per darci l’idea di che “tipo” di parole si tratti Harrison fa l’esempio del termine Nuyileq, che si tradurrebbe non con un semplice sostantivo ma con una perifrasi, ovvero: “ghiaccio rotto che comincia a espandersi, pericoloso camminarci sopra”.
Un nome grande, espanso, che contiene in una sintesi efficace l’indicazione di un ‘cosa’ (ghiaccio), di un ‘come’ (rotto), di una sottospecie di quel ‘come’ (un rotto che comincia ad espandersi) e infine un utilissimo avviso di pericolo – specifico anch’esso (pericoloso camminarci sopra).
Hugh Brody (in The Other Side of Eden – The Guardian, 28 gennaio 2001) ha descritto egregiamente il concetto: “Nella lingua inuktitut esistono molte parole per descrivere le diverse forme e condizioni della neve. C’è la neve che scende, la neve che segna la fine della bella stagione, la neve appena caduta, la neve soffice su cui si fa fatica a camminare, i cumuli di neve morbida, la neve dura e cristallina, quella che si è sciolta e poi ricongelata, la neve su cui è piovuto sopra, la neve farinosa, la neve trasportata dal vento, la neve con cui il vento copre gli oggetti, la neve dura che cede sotto il peso dei passi, la neve fusa per essere bevuta, la neve ammucchiata e la neve più adatta a costruire gli iglù.”
Questo dimostra prima di tutto una cosa ovvia: ovvero il principio di necessità. Un popolo che si deve occupare necessariamente di neve e ghiaccio perché da questo è circondato a perdita d’occhio – nella neve caccia, si disseta, con la neve costruisce, si orienta e dalla neve dipendono dunque la sua vita e la sua morte – ne sviluppa un’osservazione estremamente dettagliata che a latitudini equatoriali non ha motivo di esistere.
In secondo luogo, dalla splendida descrizione di Brody, si capisce chiaramente come quell’elemento – la neve – non sia più semplicemente una cosa tra le cose, ma un intero mondo. Come se l’unicità della neve, la sua preponderanza schiacciante rispetto ad altri elementi mancanti (alberi, fiori, gemme, erbe, arbusti) non facesse di quel posto un luogo tedioso come a prima vista potrebbe apparire, ma spalancasse invece la porta ad un altro livello di conoscenza, su un mondo in cui si manifestano altre forme e altre vite tutte da raccontare, pur nell’apparente monotonia del bianco e del freddo. Si capisce inoltre anche come da questa osservazione nasca poi un vocabolario altrettanto particolareggiato in grado di tradurre l’osservazione del singolo (la sua esperienza visiva, olfattiva, tattile, emotiva) nel fondamentale strumento di comunicazione per la vita del gruppo: la lingua.
Nel tentativo di mettere la parola fine alla lunga diatriba sulla quantità di parole eschimesi per dire ‘neve’, aggirando il problema, i linguisti di Berkeley e della Carnegie Mellon decisero di fare l’operazione inversa: concentrarsi sul numero di parole con cui le lingue dei paesi caldi identificano ghiaccio e neve.
Analizzando oltre 300 lingue, i ricercatori scoprirono che moltissime comunità linguistiche a queste latitudini identificano neve e ghiaccio con un’unica parola, come capita per esempio nella lingua hawaiana che, con il termine “hau”, mostra un pragmatismo più che comprensibile: a cosa serve ad un abitante delle Hawaii trovare più termini per indicare una cosa che probabilmente non vedrà mai in vita sua al di fuori di un congelatore?
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Bene, con queste conclusioni forse si è messo fine all’annoso dibattito sul tema, ma ora qualcuno penserà: perché scrivo di tutto ciò?
Perché questo aneddoto è illuminante, in quanto mostra l’essenza della lingua di un popolo e di come essa non sia solo un mezzo “parlato” ma “cosa parlante”. Come ovviamente ben sanno i linguisti la lingua è il riflesso del popolo che la parla e quindi un ulteriore elemento per capire chi siamo noi e, osservandone le metamorfosi nel tempo, renderci conto di cosa stiamo diventando.
E se da un lato l’ambiente e la cultura di un luogo ne partoriscono nei secoli la lingua, come è evidente nell’esempio del paesaggio artico qui sopra, dall’altro la lingua diventa il mezzo in grado di forgiare il pensiero del popolo che la parla. In ogni caso, senza termini che le indichino, sicuramente si fatica a conoscere e riconoscere le cose non nominate, destinate così a restare nascoste.
Sono questi due aspetti opposti dell’influenza che la lingua può esercitare sulla conoscenza, per illustrare i quali cercherò di portare due esempi distinti: uno riguarda le parole mancanti e l’altro quelle, per così dire, invadenti.
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Le parole mancanti costituiscono “l’angolo cieco” della lingua italiana (e chissà in quante altre lingue che non conosco) quando si tratta di descrivere il mondo relazionale.
Mi sono imbattuta in questa riflessione una sera, dopo aver chiesto a mia figlia come stessero i suoi amici all’indomani di una lite molto accesa che l’aveva coinvolta in prima persona. Ma a questa domanda mi è stato fatto subito notare che la parola “amici” non era quella più adatta per indicarli, visto che non lo erano più: aveva ragione e aver usato quel termine l’aveva anche ferita – purtroppo però non ne avevo un altro a disposizione. Non si potevano più chiamare amici perché il rapporto si era, almeno temporaneamente, rotto o interrotto: quindi come li avrebbe chiamati da quel momento in poi? Chi, cosa sarebbero diventati per lei? Non certo nemici, che in tal senso il termine era ridondante e fuori luogo.
Lo stesso problema si poneva nel definire tutte le persone che stavano nella mia rubrica telefonica: di un migliaio di contatti se qualcuno mi avesse chiesto chi fosse questo o quest’altro, io avrei potuto usare solo due termini (parenti a parte): ‘conoscente’ o ‘amico’. Ma anche nell’insieme ‘amici’ di fatto si trattava – si tratta – di persone che hanno un ruolo e un peso specifico nella mia vita molto differenti e verso cui provo i sentimenti più disparati: ma per tutta quella moltitudine vi è un’unica parola.
Amico può essere una persona che frequentiamo volentieri perché di piacevole compagnia, ma non necessariamente è qualcuno che stimiamo intimamente. Amico è anche una persona che stimiamo ma dalla quale non necessariamente ci sentiamo compresi; amico, infine, può essere qualcuno con cui non ci si sente più, ma a cui abbiamo voluto così tanto bene in passato da non necessitare di altro affetto per definirlo per sempre tale.
Il punto è che tutto questo non posso “dirlo” se non facendone un romanzo ogni volta. Cosa ci stiamo perdendo, quindi, in questa assenza di definizioni?
Abbiamo un ampio e dettagliato vocabolario che descrive i nostri “ruoli” ufficiali all’interno della società, questo sì: siamo tutti figli, fratelli, mariti, mogli, cognati, direttori, colleghi, compagni, collaboratori ecc. di qualcun altro, ma se voglio indicare “una persona che ho conosciuto in passato e che ho frequentato per un po’ di tempo prima di interrompere ogni rapporto”, ecco che mancano sinonimi o sostantivi in grado di formulare una sintesi.
Questo è esattamente l’opposto dell’utilità del concetto di Nuyileq.
Certo si potrebbe obiettare che le relazioni, che sono di fatto un’esternazione dei nostri stati d’animo, sono “sostanze” ineffabili ben più complicate da nominare rispetto a cose concrete come la neve o il ghiaccio (osservabili visivamente e quindi parte del mondo oggettivo e indiscutibile). E anche che formulare e possedere un vocabolario specifico per questo ambito così delicato dell’esperienza rischierebbe di irrigidire quei rapporti all’interno di nomi-etichetta.
D’altro canto, se non ho le parole fatico a imparare: se non c’è un nome per quel legame, per quel sentimento, sono davvero sicura di vederlo, di saperlo riconoscere, di distinguerlo, di prestarvi la giusta attenzione quando lo provo e di non incorrere in equivoci che mi portano a fare confusione nella gestione di un rapporto?
Qualcuno poi – non ricordo dove – rilevava con un certo orgoglio patriottico che l’italiano è una delle poche lingue che distingue tra le espressioni “Ti voglio bene” e “Ti amo”, circostanza che dev’essergli parsa una ricchezza verbale degna di nota. D’altro canto, poter usufruire di due termini distinti per esprimere le diverse declinazioni dell’amore è sicuramente meglio di averne soltanto una: da piccola domandai a mio padre come avesse fatto, da ragazzo, a dichiarare il suo amore a mia madre, visto che allora si parlava solo il dialetto del nostro paese, e lì dentro l’espressione “ti amo” non esiste. E lui, riflettendoci come per la prima volta, mi confermò che in effetti le aveva potuto dire solo “ti voglio bene” (ma poi – aveva aggiunto sorridendo – lei aveva capito lo stesso).
Ed è vero, in qualche modo lei aveva capito perché i sentimenti non si veicolano solo a parole ma prendono altre vie più immanenti. Però al tempo stesso, come si fa a dire – e prima ancora a pensare – “ti voglio bene” ad un’amica, e poi usare la stessa espressione nei confronti di un figlio o di una madre verso i quali nutriamo sentimenti profondi e articolati, con i quali possiamo avere un rapporto viscerale ma conflittuale, senza sentire l’esigenza di soffermarci sulle differenze e senza provare il disagio di non poterle esprimere?
Ed in uno stato ancora peggiore sta il concetto di “amore”, visto che se c’è una parola che ha perso completamente il suo senso per la superficialità con cui è stata utilizzata nei secoli è proprio questa. Non so se ve ne sia un’altra nella lingua italiana ridotta altrettanto male, talmente inflazionata da non essere più adatta ad esprimere il sentimento vero e autentico che tutti noi ben conosciamo (o almeno dovremmo conoscere) e che di conseguenza resta orfano di sostantivi.
Quanto appiattisce la conoscenza di noi stessi questa assenza di dettagli linguistici? Quanto avremmo bisogno di parole che siano in grado di descrivere la differenza (parafrasando Brody) tra un amore che sta scendendo ma non si è ancora deposto, da uno soffice su cui si fa fatica a camminare, piuttosto che un altro che si è sciolto e poi ricongelato e uno infine su cui è piovuto sopra? Quanto acuirebbe la sensibilità tattile del mondo interiore?
Se non ho le cose è giusto che io non abbia le parole, perché semplicemente non mi servono. Ma come si può pensare che le questioni relazionali e sentimentali possano stare a noi come la neve sta agli Hawaiani? E cosa ha bloccato lo sviluppo di questo ambito conoscitivo della nostra cultura?
Michela Murgia sostiene che: “Esiste un codice di buona educazione tra estranei che impone di parlare di tutto tranne che di cinque argomenti ben identificati. Non importa che siano i soli per cui valga la pena iniziare una conversazione: se non si vuole rischiare di diventare sgradevoli con persone che non si conoscono non si parla né di sesso né di soldi, di religione, di politica e di morte”. E forse, aggiungo io, nemmeno delle questioni dell’anima le quali, se non sono brevi o spiritose, lo so per esperienza, suscitano sempre disagi.
Se mancano le parole pur avendone bisogno per indicare e comprendere le cose che vedo o che sento, i miei processi cognitivi vengono necessariamente limitati, influenzati da una lingua che di fronte alla necessità rimane afona, mancando di venire in aiuto nella comprensione di quello che sento, ovvero di ciò che sono.
Ecco, leggendo della neve degli Inuit e dei ghiacci degli Yupik ho capito una prima cosa: che siamo immersi in un pressapochismo linguistico che credo abbia delle conseguenze molto concrete nella nostra vita di tutti i giorni.
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La seconda delle due questioni è quella che ho definito il problema delle parole invadenti.
Se si capisce infatti chi siamo da quello che non diciamo, si comprende ancora più chiaramente chi stiamo per diventare se osserviamo i neologismi che infarciscono la nostra lingua da due anni a questa parte. Eh già, perché tra le cose che sono accadute recentemente, è successo che abbiamo cambiato anche modo di parlare (oltre che di salutarci e non abbracciarci).
L’involuzione culturale che innegabilmente sottende questa emergenza sanitaria ci è giunta infatti – paradossalmente – completa di dizionario.
Per descrivere e dettare condizioni, gesti, riti e regole al nuovo mondo della malattia perenne e globale forse serviva un glossario specifico, da insegnare un po’ alla volta, attendendone poi con calma digestione e assimilazione, profondamente consapevoli che dalle parole si può costruire e modificare la cultura di un popolo.
Immagino qualcuno che abbia avvertito questa necessità – introdurre parole nuove, funzionali, dall’esterno – e così facendo le abbia scelte con un qualche criterio. Potrebbe aver pensato che dovessero essere specifiche, altisonanti, autorevolmente scientifiche, possibilmente poco comprensibili e prevalentemente straniere, per creare la giusta soggezione. Per esempio inglesi. All’occasione anche un inglese che gli Inglesi non riconoscono come tale. Poco importa.
Fatto sta che poi sono arrivate, tutte insieme, tutte da imparare in blocco, per poter restare al passo con l’informazione e non apparire ignoranti, ma soprattutto per comprendere le norme che inevitabilmente ne scaturivano.
Sarebbe interessante contare la frequenza con cui da allora, tutti i giorni, questi termini riescano a saturare le pagine della stampa nazionale, prendere atto del quantitativo somministratoci rispetto a quello di tutte le parole degli altri ambiti della normale discussione politica, culturale o della semplice attualità restate in asfissia.
Verificare quanti grammi al giorno abbiamo ricevuto di tamponi molecolari e antigenici, di incubazioni e intubazioni, respiratori e terapie intensive, letalità e mortalità, anticorpi, proteine, asintomatici e paucisintomatici. Quante dosi siano state necessarie prima che si costruisse da sé, dentro la maggiorparte della popolazione, una vera e propria etica basata su isolamento, distanziamento, tracciamento, trasmissione, igiene e sterilizzazione. Perché, pare incredibile, ma è accaduto anche questo: che ne è nata persino una “morale” di cui andare fieri, e che viene sfoggiata con la stessa rigidezza della piuma sul cappello del “Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica COVID-19” (sic).
Il tutto è stato, come dicevo, guarnito da inutili quanto odiosi anglicismi: lockdown, task force, cluster, droplets, termoscanner, booster, pcr, smart working, dad, call, webinar. E sul gran finale, anche il sigillo è stato coniato in inglese: Green Pass.
Che bisogno c’era di tutta questa esotica abbondanza? Chi mai, prima di questi due anni, aveva subito una simile immotivata invasione lessicale? Persino il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, ha notato che l’azione pareva avere lo scopo di educare gli Italiani “all’abbandono della loro lingua per dimostrare che l’italiano non ha parole adatte”.
Ma si può invece capire bene, leggendo tutte d’un fiato queste parole nuove, come oggi sia accaduto l’inverso di quanto sia stato teorizzato dagli antropologi nella questione dei paesi artici di cui sopra.
Perché in quel caso era l’ambiente geografico e naturale ad insegnare attraverso forme e pericoli le conoscenze vitali all’uomo; conoscenze che a sua volta l’uomo ha trovato il modo di tradurre nei vocaboli di una lingua e una cultura che definirei “deduttiva” (cioè dedotta dall’esperienza reale, che produce quindi vero sapere).
Mentre qui oggi la direzione di marcia è pericolosa perché inversa visto che la neo-cultura è “indotta”.
Sono le parole nuove – a supporto dell’informazione a reti unificate – a proiettare sui nostri schermi mentali un paesaggio surreale che ci impedisce di riconoscere la realtà vera, anche quando questa è lampante. E così facendo partorisce una sub-cultura inutile e perversa che riduce i contenuti e limita lo sviluppo del pensiero umano.
Ciò nonostante l’esperimento delle “parole invadenti” (che sia studiato a tavolino o meno) è estremamente significativo, a prescindere da quale punto di vista lo si guardi; cioè è interessante come fenomeno in sé, se lo si osserva con lo sguardo distaccato dell’antropologo.
Esistono parole perdute e parole negate, vocaboli antichi esiliati dall’uso comune e nuove espressioni venute come orde di barbari a marciare sulla lingua degli uomini, tra le macerie dei nostri pensieri.
Tutto questo semplicemente ci descrive per ciò che siamo, perché mentre parliamo la nostra lingua, la nostra lingua parla di noi.