La morte è l’ultimo tabù rimasto nella nostra società, cosiddetta occidentale e, forse proprio per questo, il più potente.
Potrebbe sembrare un controsenso, dal momento che la facilità di connessione che caratterizza la comunicazione digitale sembra abbattere le barriere e dare una maggiore libertà di espressione su qualsiasi argomento.
Tuttavia, l’ipercomunicazione digitale, priva di sguardo e voce corporei, tende ad annullare la lontananza, senza per questo favorire la vicinanza, condizione necessaria per affrontare temi complessi e di grande portata emotiva come questo.
L’abolizione della distanza pretesa dalla rete invece, presuppone il rifiuto della negatività dell’Altro a favore della positività dell’Uguale (come afferma Byung-Chul Han nel saggio “L’espulsione dell’Altro”).
Il risultato è uno spazio pubblicitario del sé, che non necessita di un Tu al quale riferirsi e rapportarsi. Di conseguenza, le relazioni delegate alla connessione digitale, eliminano tutto ciò che è in negativo nell’ottica di cancellare le differenze, percepite come un ostacolo alla libera circolazione di idee, delle informazioni e delle merci.
In questo modo però viene espulso anche il mistero intrinseco alla diversità e così il desiderio ad esso strettamente correlato. E la comprensione profonda di qualsiasi cosa (fenomeno, persona, avvenimento), passa necessariamente per il desiderio, inteso come Eros.
Come comprendere qualcosa di così misterioso come la morte se non la si accoglie, ma la si relega nello stanzino buio in punizione e si butta via la chiave?
L’abbraccio del negativo, però, dell’alterità in vista della comprensione, è un processo che richiede molto tempo e noi, soggetti dediti all’autosfruttamento per ottenere obiettivi sempre più ambiziosi e raggiungere l’appagamento dell’Io, abbiamo tutto, meno che il tempo.
Ecco quindi che la responsabilità del terrore dilagante per la malattia e di conseguenza per la morte, con la conseguente limitazione di diritti vitali che ha caratterizzato gli ultimi due anni, non può essere imputata esclusivamente al condizionamento dei media. È quest’ultimo semmai ad aver trovato un terreno reso fertile dal costante lavorio di erosione delle relazioni e della comunicazione che il neoliberismo con i suoi media e social media è stato in grado di compiere negli ultimi trent’anni.
La fobia del virus si inserisce in una salutizzazione morbosa della vita per cercare di protrarla nel tempo più a lungo possibile. Una prospettiva, dunque, che istiga l’incremento della “quantità di vita”, anche a scapito della sua qualità.
Così il mantra social ripetuto come amuleto protettivo nei confronti di chi prova a porsi delle domande mettendo in dubbio la narrazione ufficiale sulla mortalità del virus, è stato ed è tuttora “Non avete rispetto per i morti”.
Una sorta di formula magica dietro la quale trincerarsi, che chiude il discorso, senza per altro dimostrare, argomentando, una correlazione diretta tra i due concetti.
Questo atteggiamento è l’apoteosi del rifiuto dell’alterità. Non c’è nulla di più Altro della morte, nulla di più afferente al negativo, al sottrattivo.
E il nostro disperato tentativo di annegare nell’indifferenziato e rassicurante positivo dell’Uguale può essere ostacolato solo dalla morte.
I popoli antichi ricorrevano ai riti di passaggio, allegorie di morte e rinascita, per aiutare l’individuo ad affrontare i momenti significativi della propria vita e, nella ritualità, esorcizzare la paura che questi cambiamenti necessariamente comportavano.
Le favole, i miti, non raccontano altro che il percorso dell’eroe (Joseph Campbell, “L’eroe dai mille volti”), la strada cioè che ognuno deve intraprendere, con i suoi ostacoli e le sue prove iniziatiche, per raggiungere l’individuazione del sé, il proprio compimento.
La nostra società però non ha più nulla di tutto ciò; questi strumenti di conoscenza e avvicinamento alla parte inconscia della psiche sono stati relegati nell’ambito del fantastico e del primitivo, in nome di una scienza che non fa altro che categorizzare perdendo di vista l’insieme.
Anche il cristianesimo, che pure aveva in origine una stretta connessione tra portata simbolica e vita interiore del fedele, ha gradualmente perso la numinosità dei propri gesti, dai più oggi percepiti come vuoti.
L’ovvio risultato é una società di performers in grado di massimizzare il rapporto tempo/guadagno come mai prima d’ora, ma psicologicamente fragili, privi degli strumenti per affrontare qualsiasi battaglia, anche se necessaria a salvare il proprio nucleo umano.
Un mondo in cui il singolo è ossessionato dall’ottimizzazione del sé per dimostrare il proprio valore, dimentico della sua natura relazionale, non ha la consapevolezza e gli strumenti, che possono essere solo collettivi, per elaborare il tabù, non ne ha il tempo, né la capacità di accettare che “La morte si annuncia come quell’evento di fronte al quale il soggetto depone ogni eroismo di sé, ogni potere, ogni possibilità, ogni iniziativa.” ( Byung-Chul Han)
Incapacità e rifiuto di riconoscersi impotenti, dunque, e compensazione cercata nell’abbandono all’unica entità astratta alla quale oggi si riconosce onnipotenza: la scienza.
Tuttavia la tattica della polvere sotto il tappeto, prima o poi mostra i suoi limiti.
Potevamo persino fingere che la morte non esistesse, fino a quando “le bare di Bergamo” non hanno invaso l’immaginario collettivo, proprio attraverso la diffusione capillare e spettacolarizzata della loro rappresentazione mediatica.
E, come tutte le questioni rimosse, compresse e relegate nella non coscienza, in presenza di un trauma, emergono incontrollate.
Le immagini di morte, sfuggite da una crepa del nuovo idolo-scienza si sono così trasformate in paura, e la paura come sempre in violenza; una violenza mediata dalla tastiera, priva ancora una volta di corpo e per questo insaziabile.
Privata dell’interlocutore anche la violenza si appiattisce, scolorisce, perché castrata in essere del possibile rimorso per la sofferenza causata, condannata a un’eterna coazione a ripetere in cerca della soddisfazione di una frustrazione mai paga. Ecco allora che assistiamo a un circolo vizioso per il quale, una volta perduto l’oggetto contro cui questa violenza si scaglia oggi, ne verrà subito individuato un altro, così da fornire costante distrazione e mai risoluzione, con l’ovvio risultato del mantenimento del tessuto sociale allo stadio infantile.
Se indaghiamo sull’etimologia del termine tabù ci stupisce la sua inculturazione relativamente recente, avvenuta sul finire del XVIII° secolo, trasmutando il fonema dal linguaggio della cultura polinesiana. Il suo significato lega il “proibito” al Sacro ed ha una funzione rappresentativa del Mistero e protettiva nei confronti del Male. Ma il “Sacro”, profanato ovvero sconsacrato, viene sottratto al Mistero e prostituito in ogni epoca dal Potere dominante per ottenere consenso ed uniforme sudditanza degli individui. Nell’articolo si afferma che la morte è l’ultimo tabù ed è stato utilizzato con la leggerezza di una clava su tutti noi per incutere paura e ricattarci. Vero! Quindi tutto l’opposto della natura originaria del tabù che si struttura come “norma” protettiva finalizzata alla vita, alla felicità, al bene individuale e collettivo. Quando il potere è agito sostanzialmente come manipolazione della realtà per fini “privati”, oligarchie e gruppi di potere, utilizza tutti i mezzi per raggiungere i propri obbiettivi, comprese le categorie proprie del Sacro. Le utilizza sia esaltando sia svuotando il loro significato secondo convenienza. E così la “morte”, che nella comune percezione contemporanea è per lo più esorcizzata (eterna giovinezza, riti funebri svuotati ed inesistenti, cultura esasperata del carpe diem e del quì ed ora, notizie tragiche di morte subito seguite da altre notizie amene od evasive, ecc.), diviene arma letale per incutere paura e generare così consenso (la sfilata di bare, bombardamenti a tappeto, esecuzioni in diretta con il falso pudore di oscurare i volti, morti in mare, ecc.). Si “anestettizza” così il reale dolore per il dramma umano, che genererebbe empatia e “movimento verso l’altro”, alterandolo mediante l’uso dell’immagine della morte per riprogrammare il piano emotivo individuale determinando, attraverso la paura, un senso di smarrimento, di impotenza e di isolamento.
A quel punto il gioco è fatto!
Un profondo ringraziamento.
Roberto Stella
Grazie Roberto per il suo commento lucido e puntuale, non solo perché ci dà modo di avere un riscontro sui nostri contenuti, ma anche perché apre ulteriori spunti di riflessione.
Siamo convinti che se riuscissimo, tutti insieme, a costruire un dibattito culturale partecipato, potremmo davvero innescare un contrattacco alla propaganda, sottrarle il suo potere magico.
Grazie ancora dunque del suo importante contributo.