Perché Fosbury

  • di Roberto Li Causi

Tocca allo spilungone di Portland. Dagli spalti qualcuno indica la chioma ondulata del ragazzo che indossa la pettorina numero 272. Lo si vede fare avanti e indietro a ridosso della pista di atletica, mentre la voce metallica dello speaker si fa spazio tra il brusio della folla ammassata sulle tribune dello stadio Olimpico Universitario di Città del Messico: “la varilla en el salto de altura està colocada a dos metros y 24 centímetros”. Altre voci ripetono l’annuncio in francese e poi in inglese, sovrapponendosi a quelle dei 70.000. Intanto il ragazzo ha assunto la strana postura che precede ogni suo tentativo. Sembra congelato nell’atto di compiere il primo passo. Le gambe leggermente divaricate si flettono ritmicamente facendolo oscillare avanti e indietro come una specie di pendolo. Le scarpe, una bianca e l’altra blu, premono sul tartan riscaldato dal sole sudamericano. È il 20 ottobre del 1968. Sono passati diciotto giorni dal massacro di Tlatelolco. I corpi senza vita degli studenti che ricoprivano le scalinate di piazza delle Tre Culture non ci sono più. Al loro posto migliaia di visitatori festanti affollano le strade calpestando il suolo da poco ripulito, e nell’aria riecheggiano gli spari degli starter per le gare di atletica leggera.

Un altro annuncio invita ora i presenti a restare in silenzio per permettere agli atleti di prepararsi alla finale di salto in alto. Dalle tribune si leva un lungo applauso, seguito da fischi e grida di incitamento. Quando lo speaker annuncia il suo turno migliaia di sguardi sono già puntati verso il ragazzo a ridosso della pista. Ora tiene le braccia piegate lungo i fianchi, i pugni serrati. Lo sguardo sembra focalizzarsi su un punto invisibile a mezzaria, davanti al suo piede destro, e il suo corpo oscilla ancora, avanti e indietro, come una canna di bambù flessa dal vento. Tutti attendono l’attimo in cui rivedranno la scarpa blu fare un balzo all’indietro per puntarsi al suolo, il ginocchio piegarsi e le braccia alzarsi all’unisono come le ali di un airone sgraziato e potente, e Dick Fosbury lanciato in quella corsa arcuata verso l’ostacolo, e poi lo stacco e la rotazione innaturale del busto, e il collo piegato e gli occhi rivolti al cielo.

I giornali l’hanno definito “un cammello con due gambe”, per via della sua andatura dinoccolata. Dicono che quel modo di saltare non ha futuro. Dicono che prima o poi si spezzerà l’osso del collo. Tutti si domandano perché il ragazzo non si limiti a fare come fanno tutti gli altri: una rincorsa breve e poi lo slancio. Prima una gamba e poi l’altra facendo passare l’asticella sotto la pancia. Pochi vengono colti dalla strana intuizione che quel salto non sia soltanto un salto, piuttosto una sintesi, o il simbolo di un gesto più grande che non riescono ancora ad afferrare. Un gesto la cui dimensione metaforica esprime appieno i valori di coraggio e autodeterminazione indispensabili alla viva comprensione della parola “libertà”.

Facciamo nostro, oggi, questo gesto, perché nel suo valore simbolico ritroviamo le nostre stesse aspirazioni. Perché, proprio come Fosbury, sappiamo che la ragione non sta sempre dalla parte della maggioranza. Come Fosbury conosciamo la naturale diffidenza dell’uomo per ogni visione realmente nuova. Come-Fosbury non subiamo la tirannia dell’ostacolo e non cediamo alla tentazione di attaccarlo nel suo punto di forza, ma lo guardiamo dalla prospettiva che più di ogni altra ne rivela le eterne fragilità. Comefosbury sappiamo reggere il peso delle nostre scelte. Comefosbury vediamo nelle difficoltà un invito a evolverci e la possibilità di farlo attraverso la bellezza di un’azione indipendente. Comefosbury non fuggiamo dalla complessità del nostro tempo, ma gli corriamo incontro immaginando di essere già lì dove saremo in futuro. COMEFOSBURY diamo le spalle all’ostacolo perché l’ostacolo non si prenda tutto di noi, e perché il nostro sguardo, finalmente libero, possa ritrovare la vastità degli orizzonti perduti.

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