(Recensione di “Noi”, Zamjatin, E., Mondadori Libri S.p.A., 2018.)
Era il 1922 quando Evgenij Zamjatin scriveva la prefazione al suo romanzo Noi, scritto tra il 1919 e il 1921, nella prospettiva di una sua prossima pubblicazione, che invece non avverrà per molto tempo ancora. Probabilmente rimane il commento più lucido che si possa fare su questo libro, perciò è bene partire da lì.
Scriveva: “Finché nelle vene degli uomini continua a scorrere sangue rosso e caldo, finché l’umanità è ancora giovane, sempre ci saranno rivolte e rivoluzioni. Sono necessarie, come i temporali: perché il sole sia più accecante, l’aria più cristallina, i fiori più fragranti. […] Per fortuna viviamo giorni temporaleschi. L’eco ancora ne rotola, affievolendosi in lungo e in largo per la Russia, un vento secco e torrido soffia da Oriente a Occidente; laggiù, in Occidente, incombono nubi sempre più minacciose e, presto, si scaricheranno in testa alla gente, acque furiose scrosceranno spazzando via vecchie case e vecchi stati. Ma l’uomo si è disabituato da tempo agli spazi percorsi liberamente dal vento […]. Il soffio di questo temporale -ancora molto lontano al momento, forse non ancora udibile- percorre le pagine che seguono. Forse non verranno intese nel verso giusto. Ma un tedesco molto intelligente ha detto: «Il filosofo non deve essere per forza scemo». Vale anche per il lettore. Il mio scritto è per chi non soltanto sa camminare e marciare all’unisono, ma anche volare.”
Era il 1922, ed era ora. Leggere queste righe nel 2022, 100 anni dopo, fa un po’ impressione. Per come, ad ogni ciclo storico, tutto si riproponga in modo non intelligibile ai più, visibile con largo anticipo solo dai visionari, dai malati di anima, di fantasia e di amore.
Lo stesso scrittore, negli anni seguenti, definiva la sua opera una forma di protesta contro il futuro già tracciato: una civiltà che tendeva pericolosamente verso il livellamento dell’umano, la sua meccanizzazione e il controllo sociale. Non è così sorprendente che entrambi i poli geopolitici di (all)ora, quello statunitense e quello sovietico, si siano riconosciuti in quest’opera, considerandola una critica al fordismo da una parte e al comunismo dall’altra. Zamjatin tratteggia infatti un nucleo condensato di tutti quegli ordinamenti socio-politici che, in forme fenomenologicamente più o meno variegate e anche sottili, vertono sull’eliminazione di tutto quello che rende gli esseri umani unici, irripetibili, vitali, attraverso l’appiattimento nell’indifferenziazione dell’identico.
Poco importa se la dimensione cosmetica, che ricopre e veste questa densità di significato, sia quella che pertiene al capitalismo occidentale, da lui sperimentato durante un viaggio di lavoro in una borghese provincia britannica, o al socialismo della neonascente URSS, che impedirà la pubblicazione in patria del suo romanzo fino al 1988. L’importante è che «essere eccentrici vuol dire infrangere il principio d’uguaglianza…», l’infallibile uguaglianza dello Stato Unico.
Un paradiso sterile, trasparente, in cui essere, all’unisono, matematicamente felici di non essere liberi, «poiché “tutti” e “io” sono un unico “NOI”.» Felicità obbligatoria da esportare (sic!) a chi, in altri mondi, si trova ancora «allo stato brado di libertà». Nessun errore, nessun imprevisto, nessun punto di domanda, poiché «la Scienza Unica di Stato non può sbagliare». Nessun senso di smarrimento, di confusione, di estraneità a se stessi; solo un perfetto adattamento alla norma e alla sua bellezza esatta.
Coscienza di sé e sogni sono sintomi inequivocabili della formazione dell’anima, una malattia da cui è necessario guarire, chirurgicamente attraverso l’Ufficio Operazioni, o fatalmente attraverso la Macchina del Benefattore. Proprio il protagonista, D-503, si ritroverà malato d’anima, di fantasia e d’amore. A contagiarlo una donna misteriosa e inquietante, che «ormai non era più un alfanumero, era solo una persona – esisteva soltanto come sostanza metafisica dell’oltraggio arrecato allo Stato Unico». La persona, in quanto non-più-alfanumero, rappresenta l’elemento rivoluzionario: differenza e tensione vitale. In opposizione, lo Stato Unico che, nutrendosi di uguali, rappresenta l’immobilismo tendente alla morte entropica. La sua autoriproduzione è simbolizzata nella cerimonia rituale che si svolge nel Giorno dell’Unanimità, durante la quale ogni onesto cittadino ha modo di rinnovare annualmente il suo credo nella felicità obbligatoria ed esportabile.
Cento di questi anni. Era ora. È ora.
«Meno 273°, lo zero assoluto…»
«Meno 273°, appunto. Fa un po’ freddo, ma non è proprio questo a dimostrare che siamo in vetta?»