Eravamo ai primi di marzo del 2020, agli inizi della grande chiusura del Paese, e in Italia l’atmosfera era surreale. Si viveva in una bolla di perenne attesa.
Nell’immobilismo coatto molti di noi stavano incollati ai notiziari dell’ultima ora: chi alla tv, chi al pc, chi allo smartphone. Condizione nuova questa, innaturale e perfetta per favorire il filo diretto della comunicazione ipnotica tra il potere e i suoi cittadini, trasformati inconsapevolmente in sudditi da divano.
Di quei giorni ricordo un video in particolare, tra i molti che circolavano in rete, perché fu causa della mia primissima discussione a tema Covid con un amico. In quel momento non sapevo che si trattasse della mia “prima volta”, ovvero che quello sarebbe diventato l’archetipo di una lunga serie di confronti-scontri poi divenuti un triste cliché della nuova normalità.
Il video che scatenò la diatriba era un’intervista ad Ilaria Capua fatta da Marco Montemagno. Alla virologa quel giorno veniva chiesto di fare il punto della situazione per spiegare agli Italiani cosa stesse succedendo e perché il loro mondo non sarebbe mai più stato lo stesso.
La lezione della Capua iniziò con questo insolito incipit:
“Quanti sono i presenti? Settemila persone? Bene, facciamo una cosa: venite con me. (…) Chiudete gli occhi e venite con me su una stella e guardiamo il pianeta terra. Facciamo uno zoom su una foresta asiatica di notte, quando cominciano a vedersi i pipistrelli…”
Così la Capua impostava il suo lungo racconto ai settemila italiani in ascolto, persone in parte certamente spaventate dal virus e in parte annoiate dalla chiusura forzata. La paura+noia è il connubio perfetto per l’assimilazione dei contenuti: la gente andava contemporaneamente intrattenuta e tranquillizzata.
Quella della virologa fu una spiegazione sull’origine del Sars-Cov-2 tutt’altro che scientifica, ricca di suggestioni narrative in stile Jules Verne, impreziosita da mimiche degne di un’attrice teatrale consumata: un racconto che dipingeva luoghi incontaminati, grotte di pipistrelli, ricercatori armati di retino pronti all’agguato, viaggi lontani verso l’esotico mercato di Wuhan, scaglie di pangolino in vendita per usi apotropaici e mercanti cinesi che, appollaiati tra gabbie di serpenti, iniziano a starnutire…
Insomma, davvero una deliziosa favola condita anche da nobili sentimenti ambientalisti e intermezzi divertenti, capolavoro di una scienziata-narratrice che intratteneva egregiamente migliaia di Italiani nel vuoto di senso del primo lockdown della storia.
Il mio amico me lo inviò pensando di sfondare una porta aperta su questi temi, in quanto la storia era innegabilmente accattivante, credibile e allineata ai valori che da sempre condividevamo insieme: l’amore per gli animali e il sacro rispetto nei confronti di madre terra.
Massimo Mazzucco, negli stessi giorni, mandava in rete l’altra visione delle cose, quella “complottista”, e fu questo il video che io, malauguratamente, gli rimandai in tutta risposta. L’ipotesi di Mazzucco era molto diversa rispetto a quella della Capua, sia nei toni che nei contenuti. Niente giungla, niente mercato, niente pangolini: l’origine della pandemia sarebbe stata da cercare in un virus bioingegnerizzato sfuggito più o meno volontariamente dal laboratorio di massima sicurezza di Wuhan. Sullo sfondo, questioni economiche e geopolitiche tra le principali potenze del pianeta. A sostegno della sua teoria, il giornalista citava studi indiani che avevano denunciato il possibile incidente all’interno di una ricerca poi misteriosamente ritirata, alcune ipotesi formulate dalla prestigiosa John Hopkins University e infine la testimonianza di Francis Boyle – ovvero colui che nell’89 si era occupato, niente di meno, che di redigere la legge americana sull’utilizzo delle armi biologiche.
Da questi due video iniziò la nostra discussione: si trattava di verità scientifiche contro tesi complottistiche, oppure narrativa bella e buona contro giornalismo d’inchiesta? E la Capua non era la stessa scienziata che nel 2014 era finita sotto processo per traffico di virus, imputazione da cui era stata poi prosciolta ma solo per alcuni capi d’accusa, mentre altri erano decaduti per semplice prescrizione (v. “L’inchiesta su Ilaria Capua” di Zonedombratv del 26 marzo 2020)? Come potevo da quel pulpito ascoltare e credere alla sua versione dei fatti in stile Jules Verne?
In quegli stessi giorni di marzo 2020, mentre un surreale Conte d’altri tempi un po’ alla volta si preparava ad infondere piena Speranza a tutti gli Italiani di buona fede, più di ventimila soldati statunitensi sbarcavano nel Nord Europa (in Belgio, Olanda, Germania, Lettonia ed Estonia) spudoratamente senza mascherina, per un’insolita esercitazione denominata “Defender Europe 20”, che aveva lo scopo ufficiale di “accrescere la capacità di dispiegare rapidamente una grande forza di combattimento dagli Stati Uniti in Europa”. Il tutto, ovviamente, quando ancora nessuno si sognava di finire nelle Fauci dei Draghi che ci avrebbero accompagnato verso la Grande Guerra.
Ma la notizia di questa esercitazione, del tutto fuori luogo e fuori tempo, passò chiaramente solo fra canali “complottisti”, rei per l’ennesima volta di chiedersi semplicemente il perché dell’operazione e da chi dovessero difenderci gli Usa proprio in quel momento di lockdown generalizzato, visto che la stessa andava svolgendosi (fatalità) sul fronte orientale, in direzione del confine russo.
Ma Repubblica rassicurò tutti prontamente, senza por tempo in mezzo : “Coronavirus, le bufale sull’esercitazione Defender Europe”, “Come distinguere miti e realtà” e allontanare i fedeli dai “messaggi apocrifi (sic!) in giro sui social network” che dipingono “scenari particolarmente oscuri”, e “ipotesi di cospirazione del tutto insensate”.
Insomma, parafrasando Renzi: “Italiani, state sereni”.
A più di un anno di distanza, al termine della prima fase della bufera pandemica, Ilaria Capua riprende a sorpresa il filo del discorso sull’origine del Sars-Cov-2. Ma questa volta, con inspiegabile candore e senza imbarazzo per la contraddizione eclatante con la sua fiaba iniziale, riconosce sulle pagine del Corriere della Sera che “le fughe di laboratorio di virus patogeni si sono verificate da quando esistono i laboratori”, quindi non si può escludere proprio nulla! Proprio lei, che un anno prima definiva questa ipotesi come ridicola e complottista, chiude il discorso così, con la sua impeccabile nonchalance.
Successivamente, al termine dello stato di emergenza, tocca a Giorgio Palù, presidente dell’Aifa, normalizzare il dubbio complottista sull’origine del Covid. Ora che nessuno sta più ad ascoltare – come in un’aula in cui sia rimasto da solo a parlare a dei banchi vuoti – Palù fa la sua dichiarazione alla stampa: “Il Sars-CoV-2 potrebbe essere il risultato di una manipolazione ma con scopo di ricerca, senza intenzioni malevole“ (SkyTg24 – 07.03.2022). E la quadratura del cerchio si compie: nessuno potrà mai dire che la verità non sia stata in qualche modo detta.
Avrei voluto mandare gli articoli al mio amico, ma mi pareva di infierire. Chissà se avrà letto, chissà se avrà ricordato la nostra discussione.
Ora, a due anni di distanza, qualcuno ha trovato un sostantivo geniale ed efficace per definire questo nuovo modo di fare informazione: si chiama “sempliciottismo”. Una definizione che, oltre ad essere perfettamente calzante e sufficientemente ironica, ha anche il merito di riequilibrare il discredito di chi, da molto tempo, sopporta su di sé quella di “complottista”.
Il Sempliciottismo è quello stile comunicativo che apparecchia su una tovaglia di arcobaleni il necessario per servirti, un anno dopo, un appuntamento vaccinale “sotto le stelle”, in discoteca o nelle località di mare dove sei in vacanza.
Sempliciottista è la recente rivisitazione delle svastiche del battaglione Azov in chiave spirituale new-age, a completamento dell’intervista romantica di Rai3 fatta alle mogli dei comandanti dello squadrone, con tanto di primo piano agli occhioni azzurri di una dolcissima ragazzina ucraina, poco più che maggiorenne, che spiega alle telecamere quanto le manchi il marito lontano, costretto al buio delle acciaierie Azovstal.
Il Sempliciottismo è l’intera caratteristica dello storytelling in filodiffusione, quello che in modo continuo, martellante e subliminale distribuisce (fingendo di spiegare) concetti elementari che non avrebbero alcun bisogno di spiegazione.
È il prodotto di un sistema comunicativo pianificato che predilige le modalità assertive proprie delle scienze esatte, postulati o assiomi, i quali, pur non essendo stati dimostrati, vengono considerati veri a priori. “Il virus viene dal pipistrello e dal pangolino”, “Se non ti vaccini, ti ammali e muori”, “Se l’Italia fornisce armi è per aiutare la resistenza”, “Volete i termosifoni accesi o la pace?”
Teorie proposizionali che conferiscono all’enunciato un’aura di verità senza gravarlo dell’obbligo di alcuna dimostrazione.
La struttura di questo nuovo apparato comunicativo si basa in primis sulla creazione di atmosfere suggestive e un po’ fiabesche fondate prevalentemente sull’emozione della paura. Su questa base si provvede poi a rompere i nessi logici degli eventi (tra cause ed effetti) e a restringere l’analisi storica alla mera attualità, riducendo la complessità dei fatti a semplici enunciati, che si possano diffondere efficacemente a reti unificate. Infine, per liberarsi del dissenso, alternativamente ridicolizza e accusa di complottismo altre letture più complesse dell’insieme, sia che vengano fatte da gente comune che da esperti di settore.
L’impianto di questa propaganda è semplice nel suo insieme e, nonostante le evidenti contraddizioni a cui va incontro, funziona alla grande. Funziona perché siamo cittadini cresciuti a pane e intrattenimenti tv tanto che non vediamo nulla di insolito in un presidente di un paese europeo diventato tale sull’onda di una fiction televisiva in cui ha recitato anticipatamente la parte di sé stesso. Del resto nel nostro Paese il terreno era stato ampiamente preparato dal ventennio berlusconiano (di cui non ci vergogneremo mai a sufficienza) il quale aveva già testato sugli Italiani imbarazzanti slogan come “L’amore vince sempre sull’odio”.
Non c’è quindi da stupirsi della credulità con cui gli Italiani hanno accolto le narrazioni correlate agli eventi degli ultimi due anni. Del resto il nostro Paese è ormai irrimediabilmente caratterizzato da un’ingenuità diffusa che si può spiegare solo con un marcato estraniamento sociale dalla realtà e ciò che è in corso da tempo è un’opera di infantilizzazione della cittadinanza, istruita e formata per restare “bambina”: il potere ci pensa semplici o auspicherebbe che lo fossimo. Semplici e lineari, come l’obbedienza di cui necessita.
La pandemia ha d’altro canto azzerato quel poco che restava della politica italiana, togliendo ogni residuo di speranza per un vero cambiamento dall’alto. Due anni di emergenza sanitaria, ora tramutata in emergenza umanitaria (da pochi giorni nuovamente prorogata) hanno vanificato definitivamente i concetti di destra e sinistra – sui quali già da anni ci si interrogava, del resto, visto che le differenze andavano appiattendosi. La fine di questa prima tempesta ha lasciato sulla spiaggia semplicemente lo scheletro delle due fazioni in cui è ora suddiviso il paese: Provax e Novax. Due ideologie nate dal dibattito sulla bontà di un’iniezione, ma ora chiaramente molto più vaste quanto a valori e visione della vita, tanto che la traslazione delle due correnti sulla scenografia del nuovo atto – atto secondo, dal titolo “La guerra” – lascia tutto sommato invariata la compagine.
Qualcuno penserà: che c’entrano virus e vaccini con la guerra in Ucraina? Nulla, o tutto, a seconda di come si guarda la cosa.Dal punto di vista delle reazioni sociali, per esempio, i cittadini “fedeli al sistema” che durante la pandemia hanno caldeggiato la soluzione Pfizer al problema virus sono gli stessi che oggi sostengono la soluzione Nato alla guerra in corso (anche se con numeri un po’ più contenuti).
La narrazione cambia il soggetto ma mantiene invariato lo stile “sempliciotto”, con il cattivo-cattivo su un fronte (prima il Virus, poi i novax, ora lo Zar) e gli eroi pronti a salvarci sull’altro (prima i medici, ora i soldati di Azov). Cambio di vesti, stesse tematiche. Ogni giorno, un poco per volta, l’informazione di Stato apporta la sua dose di ideologia, forgia il cittadino al Sistema ed elimina la dissidenza.
Ma c’è un tratto in comune alle due narrazioni ancora più significativo: in entrambe mancano le date, i fatti e i nessi di causa-effetto. Tradotto: in entrambe le narrazioni, manca la storia. Nessun passato dietro il SarsCov2, se non la giungla oscura, nessun passato dietro la “Guerra di Putin”, se non la follia di uno psicopatico. Oggi la narrazione attorno all’Ucraina “paese democratico” finito tra le grinfie di un perfido zar russo è nuovamente un tema perfetto da sceneggiatura Disney, tanto quanto lo era la storia della giungla di Ilaria Capua (la cui vicenda giudiziaria –come volevasi dimostrare – è anch’essa da qualche mese atterrata al cinema, in un film presentato al Festival di Torino).
Ora, se fosse possibile, suggerirei agli autori della proiezione in corso di aggiungere una colonna sonora a completamento del loro capolavoro comunicativo. Una musica di quelle da film americano, che induca i sentimenti corretti da abbinare ad ogni cambio di scena: aiuterebbe a mantenere alta l’attenzione su una trama di paura e tensione altrimenti sempre uguale a sé stessa. Una trama per la quale il popolo, vessato da due anni di isolamenti e restrizioni, potrebbe rischiare di perdere interesse.
Un po’ di musica, questo è il consiglio. Una che ci faccia chiudere definitivamente gli occhi e, come suggerisce sempre il “buon” Gramellini, continuare a fare bei sogni.