People are media

  • di Vanina Sartorio

Il 7 luglio 2022 Huffpost pubblica un’articolata intervista a Simone Giacomini, il presidente di Stardust, una startup che gestisce influencer e di cui la GEDI ha di recente acquistato il 30% della proprietà.

La società si occupa di formare e gestire volti che abbiano un forte impatto sui social, in particolare quello più amato dai giovanissimi (TikTok) al fine di ottimizzare la costruzione dei personaggi e rendere più incisive le campagne pubblicitarie.

Leggiamo nell’articolo che solo nel 2021 la Stardust ha gestito circa 300 campagne social per 70 Brand. Ma non si tratta di una semplice agenzia; Giacomini dichiara infatti, in riferimento al passaggio avvenuto nel 2018 del social Musical.ly alla nuova impostazione denominata TikTok:

“In quel momento abbiamo realizzato Stardust. Volevamo tanti influencer per gestirli come tanti media. Infatti il nostro motto è “People are media”. Per fidelizzarli abbiamo deciso di cambiare paradigma e di industrializzare il processo: abbiamo garantito ai creator uno stipendio mensile e la musica è diventata il collettore per tenerli insieme”.

Industrializzare un processo spontaneo come quello degli influencer sui social è stato il primo passo della Stardust dunque; aver trovato un segmento di mercato libero e averlo occupato con prontezza, sfruttando la logica occulta della sponsorizzazione di prodotti da parte dei giovani più seguiti, la carta vincente.

Sì perché alla base di tutto c’è la fiducia che i ragazzini, fruitori di TikTok, ripongono nel personaggio che seguono ed ammirano per le doti con le quali si è fatto conoscere sui social (che sia questo un cantante, un ballerino, un artista, un attore, un comico, un appassionato di qualsiasi sport, ecc.). Nel momento in cui questo personaggio mostra le scarpe che predilige per ballare, i pennelli che usa per dipingere, il microfono per cantare, il fruitore del video non percepisce che si trova di fronte a una pubblicità, ma accoglie la descrizione del prodotto come fosse un consiglio spassionato di un amico.

E all’inizio probabilmente era anche così; ma l’acquisizione di migliaia, se non milioni di follower da parte degli influencer, ha cambiato la percezione del fenomeno e i produttori di qualsiasi oggetto, giocattolo, vestito, hanno capito che bastava inviare in forma di omaggio i propri prodotti per far sì che venissero mostrati in video.

Fino a qui almeno era ancora tutto alla luce del sole: i “box opening” infatti sono video nei quali i vari influencer dichiarano apertamente di stare mostrando i regali ricevuti recensendoli (sempre bene certo, come forma di riconoscenza), ma con una sorta di “onestà intellettuale” circoscritta alla sfera casalinga dei video girati con le “camerette a ponte” come sfondo.

L’intervento di Stardust invece cambia tutto: rende l’influencer una professione con stipendio, gli autodidatta vengono formati con corsi mirati al miglioramento delle loro doti artistiche, la loro faccia ora serve a pubblicizzare prodotti di qualsiasi natura, ogni cosa che indossano e usano non è dovuta a una scelta di stile personale, ma è ridotta a merce.

In questi video però non compare la scrittà “pubblicità” come in televisione, la promozione di prodotti non viene arginata in un contenitore ben preciso che si ritaglia il proprio spazio tra i contenuti di un palinsesto, ma li permea, si fonde con essi e con il personaggio che li rappresenta.

Per gli utenti di TikTok, che si possono ricondurre alla generazione Z (i nati tra il 1997 e 2012), non c’è stata alcuna soluzione di continuità tra il prima e il dopo Stardust e la loro percezione sicuramente non è quella di assistere a pubblicità.

Un po’ come quando in televisione comparvero le prime televendite (abilmente definite consigli per gli acquisti) all’interno dei programmi, condotte dagli stessi presentatori che, come volto amico, avevano un impatto sicuramente più incisivo nell’influenzare il telespettatore rispetto alla pubblicità classica e anonima. Sfruttando appunto il senso di fiducia legato alla ripetitività della presenza quotidiana in “tutte le case degli italiani”, i personaggi televisivi facevano leva sulla propria autorevolezza esattamente con lo stesso principio dei moderni giovani influencer.

Tuttavia la televendita era ben segnalata, dichiarata apertamente come una parentesi all’interno del programma.

Ma quello che si dichiara nell’intervista dell’Huffpost, si spinge ben oltre: con l’acquisizione da parte di GEDI del 30% dell’azienda, infatti, assistiamo al graduale insinuarsi di queste logiche puramente consumistiche anche all’interno del mondo dell’informazione.

“Vogliamo andare oltre il tentativo di spiegare il giornalismo per rifilarlo ai giovani, vogliamo portare il giornalismo sui social. La generazione Z è complicata ma molto curiosa e appassionata. È quello che abbiamo fatto con la musica, non l’abbiamo tolta dalle radio l’abbiamo distribuita meglio. Le abbiamo dato una nuova vita. Ora che i social sono pieni di pubblicità e funzionalità che stimolano il coinvolgimento, il problema è come raggiungerlo con contenuti che abbiano un giusto equilibrio tra promozione del prodotto e informazione. Il primo passo è che l’influencer abbia la credibilità giusta per portarle online. Per questo noi lavoriamo sui ragazzi, cerchiamo di dargli autorevolezza, curiamo il loro profilo e la reputazione. Se diventi affidabile, la gente ti segue”.

Sembrerebbe dunque che le notizie, le informazioni di attualità, ciò che accade nel mondo, non verranno più “servite” da un triste cronista in giacca di velluto e toppe sui gomiti, che però almeno uno straccio di competenze nel comprendere ciò che dice, dovrebbe averle, ma da ragazzini dalla buona reputazione (creata ad arte e a priori, non conquistata nel tempo grazie alla propria professionalità) che si esprimono con un linguaggio sufficientemente banale e immediato da riuscire a tenere agganciati follower dalla soglia di attenzione non superiore ai cinque minuti.

Il paragone con il mondo della musica in effetti è calzante; peccato che denoti soprattutto l’incapacità di vedere cosa abbia significato in termini di impoverimento culturale, quel “distribuire meglio” la musica rispetto alle radio che la Stardust si arroga.

I ragazzi della mia generazione (generazione X, in base alla denominazione dell’autore canadese Douglas Coupland) ascoltavano i singoli alla radio e, non potendo riprodurre i pezzi preferiti, se non registrandoli con la terribile qualità dei mangianastri casalinghi, andavano al negozio di musica e acquistavano l’album completo.

In questo modo, oltre alla hit passata alla radio, si finiva per conoscere tutto l’album, appassionarsi a un autore, conoscerne le sfumature espressive.

Oggi i giovani possono scaricare sul proprio smartphone i singoli e riascoltarli quando vogliono, col risultato che i loro archivi musicali sono, nella maggior parte dei casi, un’accozzaglia di tormentoni, ascoltati distrattamente tra una novità e l’altra.

Questo quindi è quello che Giacomini si auspica per il mondo dell’informazione? L’estensione di questa frammentazione e banalizzazione a contenuti che per loro natura dovrebbero essere invece di approfondimento e conoscenza?

Ciò che maggiormente lascia sgomenti è il candore col quale simili inquietanti previsioni vengono dichiarate, in un fiume di entusiasmo generato sicuramente dagli incredibili profitti all’orizzonte e senza esprimere la minima incertezza, senza indulgere in alcun dubbio che si tratti di un’operazione discutibile dal punto di vista deontologico.

Non sarà più praticamente possibile (e negli utlimi anni si è visto quanto sia già complesso) distinguere la propaganda dall’informazione e dalla pubblicità, visto che chi ci metterà la faccia non sarà responsabile di quanto dirà, prestandosi volontariamente a fare da burattino a un’informazione la cui origine se ne resterà opportunamente dietro le quinte.

Una fluidità che porta il mondo del mercato a sconfinare e dilagare in ogni luogo, in ogni contenuto, in ogni manifestazione anche artistica, trasformando persino i ragazzini talentuosi in merce da promuovere e vendere ad altri ragazzini che li prendono a modello: il trionfo del neoliberismo e della sua dinamicità inarrestabile che pone così le basi per il futuro di una domanda in eterna crescita.

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