La bandiera piegata sotto il braccio

  • di Vanina Sartorio

(Recensione di “Democracy”, Joan Didion, Edizioni E/O, 2013, edizione originale 1984)

Democracy è sicuramente il libro più noto di Joan Didion; ambientato tra gli anni ’60 e il 1975, particolare nella struttura, mette in risalto l’originalità e complessità di uno stile narrativo unico, più nella costruzione sintattica che in quella espressiva, la quale invece risulta estremamente asciutta.

Ad ogni inizio capitolo l’autrice si inserisce in prima persona, narratrice non onnisciente, ma interna alla storia, che si pone in relazione ad essa piuttosto come una cronista intenta a raccogliere brandelli di indizi per ricostruirla.

Si potrebbe dunque definire una sorta di manifesto del “New Journalism”, di cui la Didion è stata una delle maggiori esponenti. La verità non esiste, esistono le verità di chi narra le storie; pertanto, anche il giornalista deve abbandonare la presunzione di oggettività a favore di un sapiente lavoro di intreccio di punti di vista diversi, compreso il suo.

Il lettore qui viene chiamato dunque a partecipare alla formulazione della propria verità colmando le lacune volute, interpretando dialoghi frammentari e al limite del non sense, attribuendo un possibile significato a comportamenti criptici, a interiorità sfuggenti. Uno scambio dinamico tra creatura, creatore e spettatore che costringe quest’ultimo a riformulare costantemente i piani su cui collocare finzione e realtà.

Ed è in queste crepe create consapevolmente dall’autrice che si innesta anche la critica alla democrazia, altro personaggio, mai esplicitamente richiamato, se non nel titolo.

Perché la costante messa in dubbio delle ragioni che muovono i protagonisti (rappresentanti attivi del mondo democratico americano degli anni ’70), conduce il lettore a perdere i riferimenti, a chiedersi cosa sia effettivamente la democrazia, se non sia anch’essa una costruzione estetica, una narrazione, una scenografia all’interno della quale i personaggi interpretano una parte (Jack Lovett infatti definirà Harry, il marito di Inez un “attore radiofonico”).

Si allude, più che analizzare: la scrittrice si mette in gioco fra i personaggi come testimone capace di esternare più dubbi che certezze. In rilievo, persino nella passione fra Inez e Jack, è l’omissione, il non detto, così come mai esplicitate sono anche le ripercussioni che la crisi della politica imperialistica americana, manifestata dal ritiro dal Vietnam, avrà sulla sua società e sulla percezione di se stessa come custode dei valori democratici.

Non si parla mai esplicitamente di tramonto di un’etica in Democracy, ma la concretizzazione della sua morte è ciò che fa da sfondo alla storia, dandole al contempo ragione di esistere.

Personaggi ed autore vengono così resi orfani della capacità introspettiva necessaria allo sviluppo individuale e di conseguenza sociale, là dove la memoria di ciò che si è stati viene considerato un peso, un ostacolo a una vita pubblica fatta invece del susseguirsi di istanti eternamente al presente.

La memoria è quanto ci contraddistingue come esseri umani; non per nulla nel “Prometeo incatenato” di Eschilo tra i doni che egli riserva agli umani e per il quale è stato punito: “E poi rinvenni, a lor vantaggio, il numero, somma fra le scienze, e le compagini di lettere, ove la Memoria serbasi, che madre operatrice è delle Muse”.

Ma la vita pubblica, il rendere ogni momento, spontaneo o precedentemente studiato a tavolino, merce da vendere sui giornali e sulle televisioni a beneficio degli elettori effettivi o potenziali, assorbe e fagocita questi istanti, risputandoli come non fossero mai appartenuti ad alcuno, scompaginando ancora una volta realtà e finzione. “Cose che potrebbero essere vere o che potrebbero essere false vengono ripetute nei filmati più e più volte e alla fine non si riesce più a distinguerle” confessa Inez in un’intervista.

E senza memoria l’uomo non può che finire in balia del fatalismo, sensazione che permea tutto il romanzo. Un fatalismo che, depauperando i personaggi dell’idea di essere padroni delle proprie vite, li conduce, di generazione in generazione a ripercorrere le stesse vie caratterizzate dalla resa. Il tema dell’abbandono associato alla sconfitta infatti è ben percepibile nel continuo rimpallo che l’autrice sapientemente riesce a compiere tra lo sfondo politico (l’evacuazione USA da Saigon nel 1975 rappresentata simbolicamente dalla foto in bianco e nero dell’ambasciatore americano in Cambogia che lascia Phnom Penh con la bandiera piegata sotto il braccio) e la vita privata dei protagonisti. La scena iniziale e finale del romanzo infatti si rispecchiano una nell’altra a fare da filo conduttore alla narrazione: il racconto si apre con Inez che ricorda sua madre ballare, (madre che poi abbandonerà lei e la sorella) e si chiude con il video della stessa Inez che balla col marito mandata in onda tv in modo ossessivo in seguito proprio alla sua fuga dalla famiglia.

 

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