Non mi sembra il caso

  • di Matteo Bergamelli

Il dibattito sull’evoluzione non si è mai concluso e diversi sono i punti sui quali la teoria evoluzionistica di Darwin può essere criticata. La mia riflessione a riguardo  non ha niente a che fare con il creazionismo o l’intelligent design anche se so che qualunque appunto o critica  all’evoluzionismo viene subito etichettato come tale. Quello su cui vorrei concentrarmi è ciò che ritengo un errore di base, alla radice della sua impostazione concettuale e soprattutto far notare che si tratta di un aspetto, nella sua divulgazione contemporanea, che non ha a che fare con la scienza ma con lo scientismo, che è la sua cristallizzazione dogmatica e religiosa; deriva che va combattuta culturalmente con ogni mezzo.

Sono perfettamente consapevole di come la discussione sulla teoria dell’evoluzione, anche al suo interno e fra addetti ai lavori, sia molto ampia, complessa e variegata ma, visto che molto sinteticamente possiamo enunciare quelli che sono i due principi cardine sui quali essa si basa, e che nessun darwiniano smentirebbe, da profano appassionato e osservatore della natura vorrei evidenziare quella che secondo me è la sua falla più lampante.

Una falla talmente grande che non serve essere laureati in scienze naturali o biologia per accorgersene.

I due pilastri di questa teoria sono il caso e la selezione naturale.

Il caso come motore agente delle mutazioni e la selezione naturale, attraverso l’ambiente, come “forza” in grado di imprimere una direzione delle forme evolutive.

Prendendo come esempio la pagina di wikipedia leggiamo:

Solo grazie a sempre nuove mutazioni la selezione ha la possibilità di eliminare quelle dannose e propagare quelle (poche) vantaggiose. L’evoluzione è quindi il risultato dell’azione della selezione naturale sulla variabilità genetica creata dalle mutazioni (casuali, ovvero indipendenti dalle caratteristiche ambientali).

Tenete a mente: casuali, ovvero indipendenti dalle caratteristiche ambientali.

Questa è appunto la versione molto sintetica e schematica della teoria ma, proprio per tale motivo, è anche quella che viene divulgata: il distillato teorico usato e accettato nell’uso comune. In ogni articolo scientifico sul tema non si manca mai di rimarcare come la comparsa di mutazioni o novità genetiche non sia da attribuire ad una causa precisa ma esclusivamente alla casualità. Se ne deduce che questo è un punto fermo.

Faccio presente che io stesso, per più di metà della mia vita, ho ritenuto questa visione, nel suo impianto complessivo, plausibile e talvolta indiscutibile.

Sempre seguendo i termini generali con cui viene presentata la teoria, queste due forze modellatrici dell’evoluzione (caso e selezione naturale) vengono quindi descritte come cieche, meccaniche e indipendenti l’una dall’altra, quasi come se le forme viventi e l’ambiente in cui vivono non fossero fatti della stessa sostanza e avessero una relazione di mera contingenza materiale.

Per tradurlo in un’immagine mi viene in mente un setaccio metallico dalle maglie regolari nel quale vengono fatte passare palline di vetro per selezionare quelle della dimensione desiderata e scartare tutte le altre; ma tra palline e setaccio nessun legame, nessuna parentela, nessuna familiarità.

Poco importa se abbiamo tutti gli elementi scientifici, e non solo, per affermare che, applicata alla materia vivente, questa sia una stupidaggine: la narrazione semplificata e divulgativa della teoria continua imperterrita a propagarla.

Lasciando da parte la selezione naturale, il mio cruccio è il caso.

Uno dei due pilastri su cui si fonda l’intera teoria è infatti concettualmente inconsistente, o meglio fortemente ideologico, e quindi lontano da qualsiasi pretesa di scientificità.

Se cerchiamo la definizione della parola caso troviamo: avvenimento fortuito, accidentale, imprevisto.

Purtroppo basare l’impianto teorico sul caso è un problema piuttosto grosso per un motivo: affermare che un evento, un qualunque evento, sia capitato per caso è di per sé indimostrabile. Sarebbe dimostrabile solo nella situazione in cui noi possedessimo la conoscenza totale e assoluta di ogni cosa. Solo in presenza di questo requisito noi potremmo dire se un evento si è verificato per un motivo oppure no, se ha una causa oppure no.

Visto che questa capacità non è minimamente in nostro possesso dobbiamo per forza di cose considerare tutto ciò che riteniamo casuale non come privo di causa ma, al massimo, senza un motivo “apparente”, ossia visibile e comprensibile alla nostra limitata conoscenza. Quando affibiamo l’aggettivo casuale  ad un evento noi non stiamo descrivendo una caratteristica realmente appartenente ad esso ma la condizione di approssimazione e limitatezza della nostra capacità di comprensione.

L’affermazione categorica che le mutazioni avvengono in maniera casuale, essendo indimostrabile, ci dice dunque che siamo di fronte ad un dogma; ci troviamo di fronte all’imbarazzante escamotage di trasformare una nostra incapacità conoscitiva e predittiva in verità scientifica.  E il fatto che questo dogma sia un pilastro su cui si basa una delle teorie scientifiche più importanti della storia è molto indicativo.

Il caso è un’entità immaginaria, una divinità metafisica che entra in gioco quando la scienza non sa trovare spiegazioni.

Nella mia esperienza empirica ed empatica con le cose niente mi porta a pensare che il caso sia un’entità realmente esistente, al contrario esistono infiniti motivi e cause di eventi di cui ignoro completamente la natura e l’origine.

Attribuire al Caso la genesi e lo sviluppo della vita nell’universo equivale, in senso filosofico, né più né meno ad attribuirla a un Dio.

L’argomento che da sempre ha costituito per me un problema e impedito una mia accettazione fedele e incondizionata  della spiegazione casuale è il mimetismo ossia la capacità di una specie di imitare un’altra specie (mimetismo fanerico) o rendersi il più simile possibile all’ambiente in cui vive (mimetismo criptico); curiosamente quindi un argomento che chi si occupa di evoluzione studia costantemente.

Conosciamo tutti benissimo alcuni esempi di questa strategia evolutiva come l’insetto stecco o l’insetto foglia.

Ciò che magari è meno conosciuto è che queste non sono rare eccezioni e che il numero di specie che hanno acquisito tale caratteristica di straordinaria bellezza, presentandosi con moltissimi gradi e sfumature di raffinatezza, – ad esempio anche il manto della comune lucertola muraiola è un adattamento mimetico –  copre davvero molta parte del regno animale. Caratteristica che è presente non solo in tutti i tipi di animali – artropodi, pesci, anfibi, rettili, uccelli, mammiferi – ma anche nel regno vegetale. La prima cosa che mi viene da pensare è che per essere un evento fortuito, accidentale e imprevisto la sua diffusione dimostra esattamente il contrario. Se fossero state poche le specie in grado di mimetizzarsi allora il coinvolgimento del caso avrebbe potuto stare in piedi ma vista la diffusione e la sistematicità con la quale si presenta in quasi tutte le forme viventi, continuare a considerare la spiegazione casuale è un accanimento incomprensibile che denota, se non altro, una scarsa immaginazione.

Proverò a citare solo alcuni esempi che mi portano ad escludere la spiegazione casuale per preferire invece l’ipotesi che le mutazioni genetiche abbiano una stretta relazione con la capacità della materia vivente di entrare in connessione e risonanza con quello che la circonda.

Per averne il sospetto mi era bastato aver visto una mantide orchidea (Hymenopus coronatus Olivier) oppure la falena Uropyia meticulodina, che vista di profilo presenta sull’ala un perfetto trompe-l’oeil di una foglia arricciata con tutti i punti di luce e ombra perfettamente corrispondenti ad una illuminazione dall’alto, o ancora, per spaziare fra gli animali marini, il dragone foglia (Phycodurus eques) o l’ippocampo pigmeo (Hippocampus bargibanti).

Poi ti accorgi che oltre al mimetismo fisso c’è anche quello ad aspetto variabile, tipo la muta stagionale della pernice bianca (Lagopus muta) il cui piumaggio, passando ad una livrea completamente bianca in inverno, si adatta perfettamente dal punto di vista temporale e visivo al cambiamento esterno anche nei suoi passaggi intermedi dove il paesaggio presenta zone parzialmente coperte di neve. Un adattamento morfologico quindi non ad un singolo aspetto dell’ambiente esterno ma una sintonia con l’habitat  nella sua mutevolezza e totalità.

Gli insetti dell’ordine dei fasmidi poi rappresentano dei casi esemplari, sono un concentrato di mimetismo multiplo. La loro imitazione del mondo vegetale non si limita alla fase adulta, quando sono indistinguibili da una foglia o da rametti secchi, ma parte dalle uova che sono quasi identiche a dei semi di pianta, in modo che le formiche, scambiandoli per cibo, li portino al sicuro all’interno del formicaio dove poi potranno schiudersi tranquillamente. Dall’uovo esce una neanide, ossia l’insetto allo stadio giovanile, che ad esempio nel caso dell’insetto foglia secca australiano (Extatosoma Tiaratum) imita nella forma e nei movimenti  una formica ragno, ennesima strategia per tenere lontani i predatori, per poi ultimare la fase di trasformazione nascosta tra le chiome degli alberi. Continuare a pensare che queste mutazioni siano “casuali, ovvero indipendenti dalle caratteristiche ambientali” credo sia una dimostrazione di ottusità e chiusura mentale tipici del dogmatismo religioso.

Passando al mondo vegetale mi sono imbattuto nella Boquila (Boquila trifoliata), un rampicante che sviluppa foglie imitando forma, dimensione e colore a seconda  della pianta che la ospita. Per non parlare del doppio inganno delle orchidee del genere Ophrys che non si accontentano di imitare nella forma floreale la femmina di una vespa per attirare su di sé il maschio, funzionale all’impollinazione, ma ne riproducono addirittura l’odore del feromone tramite una sostanza volatile. Come dire, due eventi improbabili in un fiore solo.

Ancora non è sufficiente a scartare il caso e a ipotizzare una connessione morfogenetica con la materia, organica ed inorganica, circostante?

Allora guardiamo il polpo. Il suo camuffamento è immediato, in un istante si trasforma cambiando forma e colore;  pur trattandosi, dal punto di vista fisiologico, di un tipo completamente diverso di mimetismo rispetto ai precedenti, è la dimostrazione visibile che questa sintonia morfologica tra materia e materia è un fenomeno indiscutibile. Ciò che per gli altri animali è un carattere fisso racchiuso nel corredo genetico nel polpo si è trasformato in un capacità  mobile e dinamica e ce lo mostra in tutta la sua chiarezza.

Di fronte a tutto ciò il ruolo del caso, che all’interno della teoria evoluzionista è, ed è sempre stato solamente un’ipotesi, un’opinione, perde completamente sostanza. Che Darwin lo pensasse nel 1850 è comprensibile, che si continui a farlo ora, no. Non dico che non sia legittimo pensarlo, ognuno può credere a quello che vuole, dico soltanto che non mi pare una spiegazione convincente, e soprattutto dico che quando si sta affermando una semplice opinione, o un’ipotesi, bisognerebbe avere l’onestà di ammetterlo e non pretendere che tutti la adorino come verità scientifica, certa e assoluta.

Quello che dimostra che il caso sia un feticcio ideologico è il fatto che non serve a tenere in piedi la teoria – visto che in realtà non spiega proprio niente – perché toglierlo e sostituirlo con la definizione “motivi a noi sconosciuti” non cambierebbe di una virgola tutto l’impianto della teoria evolutiva.

Perché allora per gli evoluzionisti darwiniani il caso è un totem così  irrinunciabile? Perchè pensano che negarlo vorrebbe dire lasciare spazio non solo al creazionismo  ma anche a quelle che, con disprezzo quasi isterico, vengono definite “presunte teorie alternative” – accusandole di mancanza di rigore scientifico come se invece  l’esistenza del caso soddisfi questa caratteristica – nonché abbandonare la allegra visione di un mondo senza senso.  Ciò che proprio non riescono a sopportare, che rifiutano categoricamente, che li terrorizza è una visione spirituale dell’esistenza, la possibilità di una direzione, o peggio, di una sorta di intenzionalità e volontà come compartecipante alla nascita delle variazioni e mutazioni delle forme viventi. Questa fobia li porta quindi ad escludere un vastissimo campo di ricerca e di conoscenza.

Eppure, se io guardo la natura, l’essenza della vita, ridotta all’osso, è una volontà ostinata a sopravvivere, a riprodurre continuamente sé stessa: la vita VUOLE vivere.

Questa volontà sembra essere una proprietà intrinseca e immanente della materia.

Ritengo quindi che qualunque azione o evento generato da una siffatta “volontà” non possa essere definito superficialmente casuale.

Possiamo interrogarci all’infinito da dove arrivi questa volontà senza trovare una risposta, ma negare il fatto della sua esistenza mi pare impensabile.

Dedicarsi ad indagare le infinite e meravigliose forme che questa volontà vitale escogita di volta in volta non è un compito di secondo piano; la scienza non faccia quindi lo stesso errore della rana vanitosa, che per sembrare più grande si gonfiò fino a scoppiare.

Ritengo dunque importante che dall’impianto della teoria evoluzionista darwiniana venga eliminata la parola “caso” per sostituirla con “causa ignota”. Questa piccola “mutazione genetica” le permetterebbe di adattarsi meglio alla complessità della vita e per l’evoluzione del pensiero scientifico sarebbe un enorme passo avanti.

 

*fotografia di Robert Oelman.

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