Tu sei il territorio conteso

  • di Lila Veneziani

La cosa più misericordiosa al mondo è l’incapacità della mente umana di mettere in relazione tutto ciò che contiene. Viviamo in una placida isola di ignoranza in mezzo alle acque torbide dell’infinito, e non è nostro destino viaggiare lontano”. (H.P.Lovecraft, 1926)

OSCURITÀ

Chi si stupisce di ciò che è stupendo è stupido. Lo so, è solo un gioco di parole, ma l’etimo della parola stupido è proprio questo: stupĭdus, stupēre «stupire». Noi non pensiamo mai alle parole, le diciamo e basta, ma pensare alle parole apre stanze.

Riflettevo su questo mentre leggevo alcune notizie sulla presenza della materia oscura nell’universo. Per quanto risulti stupefacente, la materia oscura è tra i più misteriosi enigmi del cosmo. Sulla sua natura non si sa quasi nulla nonostante costituisca il 90% della massa di tutto l’universo. Si sa che esiste ma non di cosa sia fatta. Dicono che non emetta e non assorba luce, che interagisca pochissimo con gli atomi della materia ordinaria, che sia così singolare da non trovare posto nella tavola periodica degli elementi. Dicono che, in determinate circostanze, produca particelle di antimateria che giungono fin sulla Terra sotto forma di filamenti densi ma sottilissimi come capelli in grado di attraversarlo interamente, da una parte all’altra.

Leggevo e riflettevo sul fatto che si trattava di nozioni tanto sorprendenti quanto astratte. Le nozioni inerenti ai luoghi molto lontani nello spazio o nel tempo è facile che restino senza connessioni e, per quanto possano essere stupefacenti, è come se non ci riguardassero davvero. Normalmente, quindi, non gli dedichiamo lo “spazio di memoria” che concederemmo a notiziole sul calcio o sulla moda. Qualunque cosa possano raccontarci gli astronomi, l’antimateria non abiterà mai lo stesso spazio dello spazzolino da denti, del pigiama o del gatto che dorme sulla sedia, ovvero delle cose della “materia ordinaria”, quella cioè che gli scienziati ci dicono costituire non più del 5% di tutta la massa esistente, ma che per noi è semplicemente tutto, perché è il conosciuto.

Ecco, credo che il nostro pensiero stanzi lì, in questa sorta di casetta mentale dove ogni altro evento e ogni altro suono giunge solo attutito. A volte diamo un’occhiata oltre, attraverso le sue finestre, ma sempre come fosse un film: il cosmo sta fuori, e tra il livello dell’infinitamente grande e quello della medietà del reale noto, non c’è punto di contatto.

La definisco medietà, perché lo stesso cortocircuito cognitivo si ripresenta anche rispetto alla realtà subatomica, cioè quella dell’infinitamente piccolo, collocata in un terzo ambito anch’esso ben separato dalle nostre stanze. È una sorta di regola non scritta che questi due mondi insondabili (macrocosmo e microcosmo) non tocchino mai il nostro, il quale, grazie a questa sorta di involucro, si mantiene in sospensione, in uno stato di grazia avulso dal contesto.

Qualcuno potrebbe suggerire che si tratti di ambiti di prossimità per i quali, a causa di una sorta di miopia, la messa a fuoco mentale rivela soltanto ciò che ci è vicino. La psicologia la definirebbe invece una forma di “numbing”, o ottundimento, un meccanismo di sopravvivenza che circoscrive ambiti nel tentativo di delimitare i pericoli di cui siamo in grado di occuparci rispetto a quelli ingestibili: affrontare le difficoltà del freddo o del traffico è alla nostra portata, la caduta di un meteorite no. Tanto vale non occuparsene. 

Detto questo, e ammesso che per ragioni più che comprensibili l’uomo abbia preferito costruire muri di protezione per non vedere e non dover convivere con il terrore, rimane il mistero esistenziale e insolubile su quale sia il meccanismo reale (non psicologico, ma proprio reale) che fa sì che quelle realtà incontrollabili di fatto non interferiscano quasi mai con la nostra “normalità”, se di normalità si può parlare.

NORMALITÀ

Il termine “normale” viene dal latino normalis, che significa “perpendicolare” (da norma, squadra). Normale è la consuetudine, l’ordinarietà, l’usuale. Si parla per esempio di “condizioni di salute normali”, o di “uomo non del tutto normale”. Normali sono le prassi e le procedure, e anche i comportamenti ordinati dei cittadini che rispettano le norme.

Normale è però una parola che ha senso solo dentro al nostro piccolo mondo razionale, perché nella vita fuori di normale, quindi di ordinario, non c’è proprio nulla.

Di certo non è normale vivere su una sfera in movimento, circondati da meteoriti in transito, centri di gravità che fagocitano corpi di masse enormi all’interno di galassie in espansione. Non è normale “vivere a testa in giù” come fanno gli abitanti dell’emisfero australe (o boreale a seconda del punto di vista) anche se vivono, si muovono e camminano “in squadra” rispetto al centro della Terra. Non è normale che l’acqua degli oceani resti aderente alla sfera terrestre mentre questa ruota vorticosamente attorno al sole, nella curvità del campo elettromagnetico che costituisce lo spazio. Così come sull’altro fronte non è normale che gli elettroni osservati da Heisenberg nel suo esperimento si comportino come onde piuttosto che come particelle; ovvero che, guardata molto da vicino, la materia sia non-materia, che il suo aspetto concreto sia di fatto un’illusione ottica e la sua solidità il mero risultato del moto vorticoso di probabilità fluttuanti.

Del resto non è nemmeno normale che l’irrequieta vita della nostra stella, con le sue tempeste solari e le esplosioni che la caratterizzano, produca su di noi il placido e regolare ritmo delle quattro stagioni, che il tepore di quell’incendio incontrollato giunga qui giusto giusto nelle quantità e temperature ideali alla coltivazione dei pomodori in primavera e alla spensierata vita da spiaggia in estate. Non è normale che i deliri del cosmo non turbino il nostro livello dei cinque sensi, che la vita nell’intorno si lasci guardare e toccare placidamente, giorno dopo giorno, da tempo immemore, come se la natura fosse complice nell’assecondare le nostre fragilità e ci tenesse alla larga dai suoi eccessi.

Eppure i più colti di noi vivono come se l’intero universo fosse pienamente sotto controllo, grazie al monitoraggio di un’infinità di tecnici e specialisti che lavorano in coordinamento e armonia tra loro, nelle mani di una scienza onnipotente, blando surrogato del dio che è morto con l’arrivo dell’Encyclopédie di Diderot. Mentre altri semplicemente si limitano a stare all’oscuro dell’oscurità che ci circonda, in una beata isola di ignoranza che chiamiamo “buon senso”, quando basterebbe alzare gli occhi al cielo per capire che la parola “buonsenso”, nello spazio infinito, è forse l’unica cosa che non trova spazio.

In entrambi i casi, colti o non colti, si vive fingendo che sia tutto a posto, e di quelle vicende cosmiche, come di tutto ciò che risulta troppo impegnativo o in qualche modo inquietante – inclusa la morte – è buona creanza non pensare e soprattutto tacere.

La cultura che ci coltiva ci mantiene di buon grado in questo recinto delimitato, saturi di intrattenimenti leggeri, nella zona di comfort delle certezze indiscutibili, che siano esse scientifiche, politiche, religiose o morali, spesso con la minaccia di venire etichettati come stupidi qualora si rifiutino le spiegazioni convenzionali o si sollevino dubbi. Ma stupida è semmai l’assenza di stupore rispetto alla complessità dell’esistente.

Quanto avremmo bisogno di quella qualità che Pirsig chiamava “Qualità dinamica, quanto si rivelerebbe utile rimescolare e scombinare i meccanismi normalizzanti che la nostra razionalità ci ha imposto come presupposti di solidità e affidabilità, e che al contrario inficiano la nostra cognizione dell’insieme, presupposto indispensabile per la nostra libertà interiore e, in un certo senso, per la nostra sopravvivenza.

 IDENTITÀ

A qualcuno queste considerazioni (con-sidus-dĕris, “osservare gli astri”) potranno apparire oziose. In realtà sono il risultato del tentativo di comprendere il nostro comportamento regressivo degli ultimi tempi, l’adattamento passivo alle nuove direttive politiche e morali piovute dall’alto in questi anni di stress-test di massa.

Secondo la dott.ssa Vignali dell’Istituto Erich Fromm, questa sorta di “numbing”, ovvero il rifiuto protettivo di guardare ai pericoli emotivamente ingestibili dell’odierna contingenza storica, “starebbe conducendo allo spegnimento di una parte della nostra mente e a uno svuotamento d’identità.

«Noi psicoanalisti» scrive la dottoressa «non abbiamo più pazienti nevrotici come il Woody Allen dipinto nei suoi film o le isteriche di Freud. Chi si rivolge a noi ha ora malesseri molto più grandi e spesso è tormentato da gravi carenze della personalità, del pensiero, dell’identità. Sovente presenta un’inespressa domanda d’identità: non sa chi è, non sa cosa vuole né dove andare. Inoltre, mentre il nevrotico del Novecento una testa e una mente ce l’aveva, potremmo spesso definire colui che oggi ha malesseri psichici addirittura “privo di una mente”, cioè di una “centralina” sufficientemente capiente e resistente da ospitare pensieri talora scomodi e contrastanti e “farsene qualcosa”». «A mancare non è infatti soltanto lo spazio-mente capace di ospitare idee contrastanti, ma anche la stessa capacità di usare l’esperienza reale e le emozioni che da essa scaturiscono per produrre pensieri. Il soggetto contemporaneo è spesso in difficoltà nel pensare, nel trarre dall’esperienza una teoria che storicizzi la sua esperienza e funga da guida della sua identità».

Alla luce di queste preziose testimonianze di chi con la mente delle persone ci lavora ogni giorno, spero che le mie premesse possano ora risultare più chiare.

Il dato relativo alla scomparsa della “centralina mentale” è allarmante. E lo è soprattutto se consideriamo quanto tale condizione possa essere ottimale per il sistema che ci amministra politicamente, culturalmente, economicamente.  Quel sistema che, a suon di eventi traumatici sapientemente calibrati, non desidera di meglio che coltivarci e custodirci in questo stato di perenne vacuità.

Se analizziamo infatti le parole di cui è cosparsa l’epopea contemporanea, per esempio, ci rendiamo conto della funzione programmatoria di alcune di queste: penso banalmente a fake-news o a complottismo, di cui negli ultimi anni si è fatto un uso massiccio e indiscriminato, e a come esse siano diventate elementi lessicali di eccezionale efficacia nel tracciare solchi nello spazio mentale di chi ascolta, qualora privo di senso critico. Di come siano incredibilmente in grado, grazie alle accuse di banalità che sottintendono, di “scottare” e allontanare chi si avvicina a quei territori minati, predisponendo il terreno per la successiva semina dell’informazione politicamente corretta. “Ricorda”, ci dicono, “sei stupido se prendi per vera una notizia falsa e sei stupido se ipotizzi come reali o plausibili i complotti. Il monito arriva immediato, come una scossa: chi mai vorrebbe essere preso per stupido?

In quelle menti evacuate dall’identità di cui parla la Vignali, queste parole agiscono infinitamente meglio di proibizioni, minacce, eserciti o fili spinati, e con una forza inattesa, visto che nessuno si aspetta di essere aggredito e forgiato da parolesemplici parole, ma “chiave” nel vero senso del termine, cioè con la capacità di aprire e chiudere stanze interne e dare ordini e forma alla nostra mente.

Lungo i binari tracciati da questi elementi lessicali, e sotto l’ombrello di una morale che da qualche tempo a questa parte ritiene auspicabile l’uniformità d’intenti, assistiamo a ribaltamenti e rovesciamenti totali della realtà esterna. Tutto diventa possibile, se accompagnato dal giusto racconto: somministrare medicinali sperimentali; sottrarre libertà costituzionali concrete con la vaga promessa di elargirne di future ed astratte; celebrare il rigore del metodo scientifico con formule religiose; fomentare la guerra in nome della pace o sostenere il nazismo in difesa della democrazia.

Il potere delle parole, di queste armi silenziose, non è chiaramente una novità nella storia. È pacifico come tutti i grandi organismi di potere, da quelli religiosi a quelli imperiali, abbiano potuto crescere e svilupparsi nei secoli solo reggendosi sulle gambe di altrettante epopee. Ma questo fenomeno in passato è stato esercitato prevalentemente su soggetti semplici e poco istruiti, in contesti in cui la cultura era appannaggio di pochi, tanto che da sempre si è creduto che istruzione e cultura potessero diventare veri e propri antidoti rispetto alle operazioni di “lavaggio del cervello” messe in atto dal potere. L’illuminismo e l’età della ragione non si erano forse prefissi di adempiere a tale compito? Questo è il discrimine tra le passate narrazioni e quella attuale, questo l’elemento di novità che sorprende e inquieta: se nemmeno la cultura funge più da protezione dell’individuo, del cittadino nei confronti dei potenti, quale altra difesa potrà mai esserci? Di fatto è indiscutibile come di questi tempi l’essere istruito o meno non abbia più alcun valore al fine di potersi considerare, cognitivamente parlando, al sicuro. Anzi, a volte parrebbe addirittura il contrario, come se il discorso seduttivo del potere si fosse fatto oggi ulteriormente più astuto indossando i panni oggettivi della scienza e quelli formali delle istituzioni, utilizzando il loro linguaggi forbiti, le loro formule complesse, ma anche i loro abiti, i loro uomini titolati, tutte le loro “altisonanze”, e così facendo fosse riuscito a bypassare la soglia di guardia di molta gente colta che, in quel mondo e in quel linguaggio, aveva riposto la propria fiducia e la propria identità, in totale buona fede.

È sconfortante come visione, ma osservando tutto questo viene da pensare a noi come veri e propri esseri programmabili e alla nostra mente come ad un software tra i tanti, passibile d’essere riscritto tanto facilmente con contenuti altrui. Come scriveva Isaiah Berlin ne “La libertà e i suoi traditori”:

«L’uomo, come ogni cosa nella natura, è malleabile, plastico e modificabile…Il barone d’Holbach ci dice che “l’educazione non è altro che l’agricoltura degli spiriti”: il governo degli uomini non è diverso dall’allevamento degli animali. E dunque, se i fini sono dati e l’uomo è plasmabile, il problema acquista un carattere puramente tecnologico» ma «è certo che gli interessi degli uomini non coincidono in maniera automatica. Bisognerà aggiustarli, e questo lavoro di aggiustamento è il compito del legislatore…Di qui la necessità del dispotismo esercitato da un’élite di scienziati»

Ne sono consapevole: sto dipingendo un quadro di plausibili interventi di decostruzione e ricostruzione della realtà, tentativi di formattazione dell’identità individuale e collettiva. Sto parlando di un possibile mutamento di paradigma dell’esperienza dell’uomo, sia come individuo che come mammifero sociale. Ed è una lettura delle cose estrema e rischiosa. Bisogna però prendere atto di come le eterne pulsioni di dominio dei pochi sui molti, combinate con la dimensione definitivamente globalizzata del pianeta, l’incredibile accelerazione del progresso tecnologico messo a disposizione degli apparati miliari e gli scenari distopici che uno sviluppo incontrollato dell’intelligenza artificiale fanno presagire, siano riusciti a partorire un nuovo tipo di guerra, per lo più impercettibile ai sensi ma invasiva appunto sul piano mentale: una guerra diversa da tutte le altre conosciute,  una guerra geneticamente modificata.

Non si può ignorarla, perché questa guerra è già qui, e un recente think tank di area NATO l’ha ufficialmente battezzata, e si chiama “guerra cognitiva”. È un conflitto i cui obiettivi non sono più terra, mare, aria, spazio, cyberspazio – ma l’essere umano in sé. Qualcuno l’ha chiamato “il dominio umano”, il sesto dominio operativo, con il suo pacchetto completo di pensieri e sentimenti. Ne parlano tranquillamente, come se si stesse parlando di un nuovo prodotto, un’automobile o un telefono, con la stessa professionalità, il medesimo distacco, senza turbamenti ed evidentemente senza pensare che vi sia qualcosa da nascondere. Secondo uno di questi think tankers, J. Fuisz, la guerra cognitiva sarebbe definibile come “il cambiamento delle credenze” il cui slogan suona in questo modo:

“Ovunque tu sia, chiunque tu sia, tu sei il territorio conteso”.

Forse ora è più chiaro perché fossi finita a riflettere di questioni astronomiche. A volte, infatti, penso che l’anomalia dell’attuale contingenza storica possa essere compresa appieno solo nei termini di “singolarità”, non nel senso comune del termine (situazione emergenziale, dunque insolita), ma singolarità in senso astronomico: una sorta di punto di alterazione gravitazionale, le cui conseguenze (metaforicamente parlando) non saprei chiaramente indicare se non nei termini più elementari di punto di non ritorno.

Quel che è certo, è che mai avevamo assistito a simili mutamenti ontologici, mai il potere si era spinto tanto a fondo nell’intimità dell’individuo, e mai si era prospettata all’orizzonte l’imminenza di una rivoluzione tanto impensabile quanto indispensabile. Se “l’attacco” del potere è migrato oggi dalla dimensione esteriore a quella interiore dell’uomo, anche la nostra azione di difesa dovrà adeguarsi e operare in quello spazio angusto nel quale ci siamo rintanati pensandoci al sicuro, convincendoci che tutto quanto di terribile ci accadesse intorno contasse per noi poco più di un film.

1 commento su “Tu sei il territorio conteso”

  1. Lila Veneziani, la Sua chiarezza adamantina è per me una luce accecante che squarcia la tenebra. La invidio un po’ per questa capacità di dire, e mi inorgoglisce la comunanza di riferimenti. LeggendoLa mi sento meno solo. Si palesi, per favore, mi dia modo di constatare che è reale.

Lascia un commento