Due città in un luogo. Due storie in un paradosso.

  • di Silvia Noris

(Recensione de “Il libro della scomparsa”, Azem Ibtisam, Hopefulmonster, 2021)

“Quando cala la notte, puoi trovarmi a lavare con la memoria nera le case attorno a me. Ripulisco dal biancore le facciate dei palazzi bianchi, dipingo tutto di nero. Prendo il nero dal kohl della notte e con il nero tingo tutto ciò che si trova in città. Quasi temendo che la memoria bianca si impossessi di me, la pulisco con il nero, nero di una notte senza luna. Amo il nero, perché è come noi, perché è noi.”

Ibtisam Azem sa di cosa parla. Giornalista e scrittrice palestinese, cresciuta in Cisgiordania e laureata all’Università ebraica di Gerusalemme, sa esattamente di cosa parla quando scrive il suo Il libro della scomparsa (2021, hopefulmonster editore).

Difficile distillare la violenta delicatezza di questo libro, e del suo finale, senza sciuparne l’aroma. Questo libro è come una lama, che toglie e al tempo stesso restituisce. Come se ferisse gli occhi e, solo in quel doloroso momento, rendesse finalmente possibile la vista.

Come un’arancia di Giaffa è da assaporare lentamente, uno spicchio alla volta, un capitolo dopo l’altro, un personaggio dopo l’altro. Una sarta, una raccoglitrice di fiori, un venditore ambulante. Un medico carcerario, una prostituta, un passeggero di autobus, un avventore di bar. Ognuno di loro racconta, attraverso la sua storia, la Storia. Tante storie, una Storia. Una Storia, ma anche due storie, quella del cameraman palestinese Alaa e quella del giornalista israeliano Ariel. Oggi le chiameremmo narrazioni, e allora: una Storia, due narrazioni.

In un cortocircuito paradossale si sovrappongono il tempo storico, con inizio 1948, e il tempo narrativo del romanzo, come si sovrappongono due città, Giaffa e Tel Aviv, l’una il fantasma dell’altra. Il passato si aggira come un morto vivente tra le pagine, incarnato di volta in volta nei corpi dei sopravvissuti, orfani del proprio paese. Scandito attraverso le pagine del diario di Alaa, che dialoga con la nonna e con la sua memoria, si sovrappone al presente già quasi futuro -i vincitori della Storia guardano solo avanti e mai indietro- di Ariel.

Il paese si trova di fronte un pericolo indecifrabile: il nemico di sempre scompare, insieme alla sua hegeliana necessità, e lascia sconcertati e nudi di fronte allo specchio. Lo specchio rimanda un’immagine difficile da sostenere con lo sguardo, perché abitualmente proiettata in una zona d’ombra del campo visivo, frutto di una scotomizzazione collettiva, poiché “l’illusione è sufficiente per farci vivere la bugia che poi diventa realtà”. Invece l’Altro scompare, portandosi via la possibilità stessa del dialogo e la sua funzione di alibi.

Questo libro racconta la fatica di sopravvivere e vivere, di essere presenti a se stessi e al mondo in tutto il suo orrore, quando la cosa più normale da fare sarebbe impazzire o suicidarsi. A tutto si può scampare, tranne alla propria memoria. Questo libro è, in qualche modo, un atto necessario. Perché “un diritto non è perso finché c’è qualcuno che lo rivendica…”

Se la compresenza di due storie diverse in uno stesso spazio-tempo vi sta dicendo qualcosa, se riuscite a sentire il dolore della frattura, ma una vocina interiore vi sta dicendo che non si possono fare paragoni insensati, che è ingiusto e irrispettoso, lo stesso Alaa vi risponderà:

“Io non sto facendo paragoni. Cosa ho paragonato? Io ascolto e ascolto e ascolto. Voi parlate per tutto il tempo, e noi vi ascoltiamo e cerchiamo di farvi capire che c’è un errore nell’equazione. A volte proviamo a esprimerci con calma, e spesso stiamo zitti. Abbiamo paura e ci ribelliamo. Vi odiamo e ci avviciniamo a voi, a volte vi amiamo anche, come esseri umani. Vi imitiamo e vi crediamo, ma sappiamo che prima di tutto stiamo mentendo a noi stessi. Capiranno, ci diciamo… Ma voi non ci ascoltate. Tutto quello che diciamo si perde in traduzione. Anche quando parliamo la stessa lingua. E allora ci rendiamo conto che niente può far sì che ci sentiate e ci ascoltiate a meno che non alziamo la voce. A meno che non urliamo alitandovi in faccia per farvi fermare a sentire quel che diciamo. […] Se non raccogliete i cocci di quel che avete rotto, quei frammenti vi esploderanno in faccia, anche se li avete seppelliti sottoterra, persino se ci avete costruito sopra.”

Shalom aleikhem

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