passi

o scia di briciole e sassolini bianchi

Hitler ritiene che le ragioni della sua azione stiano in un passato lontano, in una saggezza magica da recuperare e nella quale sta la chiave del futuro. Se si stabilisce con chiarezza questo punto, le sue azioni appaiono coerenti. Egli si ritiene il depositario di doti particolari, il protagonista di un destino senza pari. L’approccio qui proposto non intende stabilire un rapporto tra questa personalità e l’intero partito o l’intera società tedesca, ma tra di essa e il gruppo di intellettuali di cui è stato descritto il processo formativo.
È in questa cerchia ristretta e sulla base di questa cultura che dal 1933 vengono prese decisioni fatali per la Germania e per l’Europa. Gli obiettivi sono quelli indicati dal Mein Kampf: la creazione di un’Eurasia dai confini orientali indefiniti. […]
Hess e i due Haushofer collaboreranno a questa strategia con un intreccio di geopolitica e astrologia. Himmler vuol trasformare le Ss in un ordine nel quale l’iniziazione si intreccia con la spietatezza. Anche coloro che al vertice nazista hanno una diversa formazione culturale, sono influenzati da quella di origine occultista. Goring, pragmatico, ha qualche condiscendenza per la teoria della terra cava degli emuli di Horbiger. Goebbels, espressione del nazismo “sociale” di Rohm e dei fratelli Strasser, si interessa di Nostradamus e degli astrologi. Persino il gelido von Ribbentrop si abbandona a fantasticherie a proposito del duca di Windsor.

 

Giorgio Galli “Hitler e il Nazismo magico”

(1989Rizzoli, pag. 145)

Non riusciva a ricordare più nulla, a stabilire altri nessi. Ma già così bastava: rotolando, volando, all’improvviso gli corsero incontro i frammenti assolati di una giornata estiva della sua infanzia (mentre saltava dalla finestra, il giubbino s’era impigliato alla serratura dell’imposta), e poi altri frammenti – ridicoli e tristi, variopinti, così rapidi che non si riusciva a trattenerli. E i guanti bianchi e stretti su quelle manine, e il lungo pastrano da cadetto, e tutto ciò che di fiero e orribile accadde dopo che entrò nel Nikolaevskij, e la meravigliosa, selvaggia libertà di quella primavera, e poi di nuovo l’azzurrità decembrina, e quell’incrocio vicino al ponte della Borsa dove un giorno, chissà perché, s’era immaginato un transatlantico che immerso nelle nebbie entrava nella Malaja Neva spaccando gli argini, levandosi più alto della fortezza di Pietro e Paolo; e altre cose ancora: i minacciosi accordi singhiozzanti, le volute delle trombe del reggimento sulla bara di suo padre. Sabbia e neve. E silenzio.

 

Nina Berberova “Il lacchè e la puttana”

(1986Adelphi, pag. 49)

Quando le cose, i segni, le azioni vengono liberati dalla loro idea, dal loro concetto, dalla loro essenza, dal loro valore, dal loro riferimento, dalla loro origine e dal loro fine, allora entrano in un’auto-riproduzione all’infinito. Le cose continuano a funzionere mentre l’idea che le accompagnava è da tempo scomparsa. Continuano a funzionare in una indifferenza totale nei confronti del loro contenuto. E il paradosso è che esse funzionano ancor meglio.
[…]
C’è forse in ogni sistema, in ogni individuo, la pulsione segreta a sbarazzarsi della propria idea, della propria essenza, per poter proliferare in tutti i sensi, estrapolarsi in tutte le direzioni? Ma le conseguenze di tale dissociazione possono essere soltanto fatali. Ogni cosa che perde la propria idea è come l’uomo che perde la propria ombra – essa cade in un delirio in cui si perde.

Qui comincia l’ordine, o il disordine metastatico, di demoltiplicazione per contiguità, di proliferazione cancerosa (che non obbedisce neanche più al codice genetico del valore). E allora in qualche modo in tutti i campi sfuma la grande avventura della sessualità, degli esseri sessuati – a tutto vantaggio dello stadio anteriore (?) degli esseri immortali e asessuati che si riproducono, come i protozoi, per semplice divisione del Medesimo e declinazione del codice. Gli esseri tecnologici attuali, le macchine, i cloni, le protesi, tendono tutti verso questo tipo di riproduzione e gradualmente inducono lo stesso processo tra gli esseri cosiddetti umani e sessuati.
Tutti i tentativi attuali, tra cui la ricerca biologica più avanzata, tendono verso la messa a punto di una tale sostituzione genetica, di riproduzione sequenziale lineare, di clonaggio, di partenogenesi, di piccole macchine celibi.

Dai tempi della liberazione sessuale la parola d’ordine è stata quella del massimo di sessualità col minimo di riproduzione. Oggi il sogno di una società clonica sarebbe piuttosto l’inverso: il massimo di riproduzione col minor sesso possibile.
Un tempo il corpo era la metafora dell’anima, poi divenne la metafora del sesso, oggi non è più la metafora di nulla, è il luogo della metastasi, della concatenazione macchinica di tutti i suoi processi, di una programmazione all’infinito senza organizzazione simbolica, senza obiettivo trascendente, nella pura promiscuità con sé stesso che è anche quella dei sistemi reticolari e dei circuiti.
La possibilità della metafora svanisce in tutti i campi. Questo è un aspetto della transessualità generale che si estende ben al di là del sesso – a tutte le discipline, nella misura in cui esse perdono il loro carattere specifico ed entrano in un processo di confusione e di contagio, in un processo virale di indistinzione che è l’evento primo di tutti i nostri nuovi eventi. L’economia divenuta transeconomia, l’estetica divenuta transestetica, il sesso divenuto transessuale, convergono tutti in un processo trasversale e universale dove nessun discorso potrebbe più essere la metafora dell’altro , giacché, perché ci sia metafora, occorre che ci siano dei campi differenziali e degli oggetti distinti.

 

Jean Baudrillard “La trasparenza del male”

(1990,  Sugarcoedizioni, pagg. 12,13,14)

Si è detto che la proclamazione della “democrazia politica” come opzione irreversibile andrebbe ascritta a Berlinguer, in un noto intervento pronunciato a Mosca (che commosse Ugo La Malfa) il 27 febbraio 1976 (…)
Questa vicenda galvanizzò l’attenzione: soprattutto dopo il grande successo del Pci alle elezioni amministrative e regionali della primavera del 1975 (…). Alla fine dell’anno il segretario politico del Psi, il romanista Francesco De Martino, aveva chiesto che si instaurassero, al governo nazionale, “più avanzati equilibri”, in pratica l’immissione del Pci nell’area di governo. Le Camere furono sciolte e le elezioni politiche fissate per il 20 giugno 1976.
La sortita moscovita di Berlinguer (27 febbraio) si inseriva nella praeparatio alla campagna elettorale: l’obiettivo era di dimostrare che il Pci “rompeva” con l’ortodossia ideologica sovietica, il cui massimo interprete all’epoca era Michail Suslov. La Cia, come s’è appreso dalle memorie dell’ambasciatore Usa a Roma, Richard Gardner, provvide a piazzare sin da subito microspie nell’appartamento del fidatissimo alter ego di Berlinguer, il suo super segretario Tonino Tatò, al fine di appurare se quel proposito fosse vero. Il risultato fu che quel proposito di rottura con Mosca c’era (e fu pubblicamente definito “lo strappo”), ma al Dipartimento di Stato non parve sufficiente.
Qualche giorno prima delle elezioni, esattamente il 15 giugno 1976, appare contemporaneamente – sul “Corriere della Sera” e su “l’Unità” – l’intervista, poi diventata celebre, di Berlinguer (intervistatore G.Pansa) nella quale egli affermò di sentirsi “più sicuro” nel Patto Atlantico: “Mi sento più sicuro stando di qua, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi per limitare la nostra autonomia”. Nella forma pubblicata su “l’Unità” questa frase mancava. Fu omessa: difficile pensare ad un colpo di testa del direttore: è ovvio che fu Berlinguer stesso a suggerire il taglio, troppo disturbante essendo l’infelice frase per lo stomaco di un militante onesto.

 

Luciano Canfora “La metamorfosi”

(2021,  Editori Laterza, pag. 61)

La dottrina indù insegna che la durata di un ciclo dell’umanità terrestre, al quale essa dà il nome di manvantara, si divide in quattro età, che segnano altrettante fasi di un oscuramento progressivo della spiritualità primordiale. Si tratta degli stessi periodi che, da parte loro, le tradizioni dell’antichità occidentale designarono come le età dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro. Noi ci troviamo presentemente nella quarta età, del kali-yuga o “età oscura”, e noi vi siamo, si dice, già da più di seimila anni, cioè da una data decisamente anteriore a tutte quelle conosciute dalla storia “classica”. A partire da allora, verità già accessibili a tutti sono divenute sempre più nascoste e difficili a raggiungere. Coloro che le posseggono sono sempre meno numerosi e se il tesoro della saggezza “non-umana”, anteriore ad ogni età, non può mai perdersi, esso si avvolge tuttavia di veli sempre più impenetrabili, che lo nascondono agli sguardi e sotto i quali è estremamente difficile scoprirlo. È per questo che, sotto simboli diversi, dappertutto si è parlato di qualcosa che si è perduto, almeno in apparenza e per il mondo esteriore, e che va ritrovato da coloro che aspirano alla conoscenza vera; ma è stato anche detto che quel che è divenuto così nascosto ridiverrà visibile alla fine di questo ciclo: fine che, in virtù della continuità che collega insieme tutte le cose, sarà in pari tempo il principio di un ciclo nuovo.

 

René Guénon “La crisi del mondo moderno”

(1991,  Edizioni Mediterranee, pag. 25)

Bernays fu uno dei primi a capire che provocare paura nei confronti del comunismo e quindi manipolare le emozioni delle persone verso di esso, sarebbe stata una ricetta sicura per il successo di una ingegnerizzazione diffusa della pubblica opinione e per il controllo delle persone. Questa teoria era così potente che divenne un’arma vera e propria durante la Guerra Fredda. (…)
Il suo primo progetto internazionale è stato aiutare a progettare il rovesciamento da parte degli Stati Uniti del governo eletto dal popolo di Jacobo Arbenz in Guatemala. In quel periodo la United Fruit Company dei Rockfeller, d’intesa con altre élite finanziari americane e internazionali, possedeva gran parte del Guatemala, compreso il settanta per cento di tutte le terre coltivabili, le strutture di comunicazione, l’unica ferrovia e il porto commerciale, oltre a controllare gran parte delle esportazioni. Quando Arbenz cominciò ad esportare e a redistribuire la terra, Bernays sviluppò una massiccia campagna di propaganda che bollò Arbenz come comunista e nemico della democrazia, al punto che l’opinione pubblica americana sostenne una delle più marchiane violazioni dei diritti umani nella storia degli Stati Uniti. Questo modello si è rivelato talmente efficiente da essere stato riproposto in gran parte delle campagne di destabilizzazione condotte dagli USA negli anni a venire, ed è una delle principali cause dell’enorme scollamento tra ciò che gli americani credono che il loro governo abbia fatto e ciò che realmente portano a termine.
La tecnica di reductio ad Hitlerum, utilizzata contro Arbenz, combinata con le teorie di Gene Sharp sull’uso strategico dell’azione non violenta, costituiscono la base concettuale sulla quale poggiano interventi espliciti come le guerre per l’esportazione della democrazia e operazioni indirette per i “diritti umani”, come quelle a sostegno delle cosiddette Rivoluzioni colorate e delle Primavere arabe.

 

Giorgio Bianchi “Governare con il terrore”

(2022,  Meltemi Editore, pag. 28)

I cani guaiscono quando sentono arrivare il terremoto. Lo temono. Non è una festa: è la paura. Anche noi, a modo nostro, “guaiamo”. La differenza è forse nel fatto che quasi tutti i cani sentono arrivare il terremoto, mentre quasi tutti gli uomini non sentono un bel niente. Per cui, in genere, quelli che percepiscono il cambiamento più o meno imminente – e “guaiscono” a modo loro – vengono guardati da quasi tutti gli altri con disgusto, pena e persino odio.
Le Cassandre non hanno mai goduto di grande popolarità e forse la spiegazione sta nella nostra specificità umana.
Siamo conservatori. Un principio conservatore è presente in ogni organismo complesso. Non è l’unico principio di cui siamo costituiti, ma è molto forte. Se non ci fosse l’organismo complesso – parlo di organismi viventi – non potrebbe conservarsi. Noi esseri umani siamo molto complessi, quindi anche molto conservatori. Così può accadere, anzi accade quasi sempre, che non diamo troppo retta a quel tipo di sensazioni, di pensieri o di idee che possono turbare la continuità. Al punto che, spesso, queste “intrusioni del nuovo” proprio non le vediamo anche se sono evidenti.

(…) In verità, se allarghiamo ancora lo sguardo, vediamo che questo atteggiamento dell’Occidente non si è mai limitato alla sola Russia. Esso è stato applicato indistintamente nei confronti di tutto il resto del mondo. Una specie di mescolanza di superiorità e disprezzo, di paura dell’ignoto, dell’estraneo, del diverso. Ovvero quella suprema indifferenza del potente che decide di ignorare le aree, siano esse geografiche o culturali, dove il suo dominio non giunge. Qualcosa di simile all’hic sunt leones con cui l’Impero romano liquidava le regioni dell’Africa che non era ancora riuscito a conquistare o in cui non aveva avuto tempo e voglia di penetrare. Ma solo in attesa del momento – che certamente prima o poi sarebbe giunto – in cui avrebbe potuto e voluto farlo. Non è mai esistito impero che abbia avuto ambizioni limitate.

 

Giulietto Chiesa “Putinfobia”

(2022,  Piemme, pagg. 3,6)

(…) la mamma mi annunciò che presto avremmo lasciato Clarens per andare a vivere a Losanna. Laggiù avremmo avuto una vita completamente nuova.

Aspettava una risposta, una reazione qualsiasi da parte mia; e siccome restavo muta, soggiunse:

– E’ a causa delle Idee-di-papà.
– Le mie idee, le mie idee… disse papà, ma le idee sono quello che importa di più per gli uomini… E’ per le idee che vale la pena di vivere… Altrimenti la vita non varrebbe la pena di essere vissuta…

E lasciando raffreddare il suo caffè nero, si mise a parlare a lungo, guardando ora la mamma, ora me, come se io fossi diventata una ragazza grande, capace di capire molte cose. Papà diceva che le idee erano come piccole luci accese nel cervello degli uomini, che permettevano loro di sondare le tenebre dell’ignoranza. Somigliavano anche a fonti di calore a cui ciascuno poteva scaldarsi il cuore. Le idee! Sì, ecco cosa era importante per gli uomini, che cosa faceva battere loro il cuore. A causa loro lottavano contro l’ingiustizia e a volte accettavano addirittura di morire. Certo, non erano tutte oro zecchino, oro colato o tutte luminose. C’erano idee basse o oscure. Altre erano di tutto riposo; restava solo da passarci la vita seduti sopra, comodamente istallati come su dei cuscini.

Alice Rivaz “L’alfabeto del mattino”

(1968,  Eldonejo, pag. 313)

Il magistrato si era intanto alzato ad accogliere il suo vecchio professore. “Con quale piacere la rivedo dopo tanti anni!”.

“Tanti: e mi pesano” convenne il professore.

“Ma che dice? Lei non è mutato per nulla, nell’aspetto”.

“Lei sì” disse il professore con la solita franchezza.

“Questo maledetto lavoro… Ma perchè mi dà del lei?”.

“Come allora” disse il professore.

“Ma ormai…”.

“No”.

“Ma si ricorda di me?”.

“Certo che mi ricordo”.

“Posso permettermi di farle una domanda?… Poi gliene farò altre, di altra natura… Nei componimenti di italiano lei mi assegnava sempre un tre, perchè copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perchè?”.

“Perchè aveva copiato da un autore più intelligente”.

Il magistrato scoppiò a ridere. “L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un grande guaio: sono qui, Procuratore della Repubblica…”.

“L’italiano non è l’italiano: è il ragionare” disse il professore. “Con meno italiano, lei forse sarebbe ancora più in alto”.

La battuta era feroce. Il magistrato impallidì. E passò a un duro interrogatorio.

 

Leonardo Sciascia “Una storia semplice”

(1989,  Adelphi, pagg. 43-44)

L’operaio non poteva più far fronte; la Rivoluzione non aveva fatto che aggravare la situazione; dall’Ottantanove era la borghesia che s’impinguava, con un’ingordigia che al lavoratore non lasciava neanche i piatti da leccare. Della ricchezza e dell’agio che negli ultimi cent’anni s’erano straordinariamente accresciuti, chi poteva dire che la classe operaia avesse anche in minima parte beneficiato? Li avevano dichiarati liberi, i lavoratori; e con ciò s’eran lavati le mani di loro; liberi di che? Di crepar di fame; oh per questo, quanto volevano! Non era il diritto di votare dei bei tipi che, una volta eletti, pensavano alla propria pancia e della povera gente si preoccupavano quanto della terza gamba, che faceva entrare pane nella madia! (…)

“Aumentare il salario, che forse si può? Una legge di ferro lo fissa allo stretto necessario; all’indispensabile, perché l’operaio possa mangiare pane e sputo e procreare dei figli. Se il salario scende sotto quel livello, l’operaio crepa; e la richiesta di nuovi operai lo fa risalire. Se supera quel livello, cresce l’offerta di manodopera e lo fa calare. È l’altalena delle pance vuote, la condanna a vita alla galera della fame.”

Emile Zola “Germinale”

(1950,  Arnoldo Mondadori Editore, parte III cap. I pagg. 152-153)

“Non sei capace di capire che l’uomo ordinariamente non fa nesuna scelta. Le condizioni della sua esistenza, egli se le trova prefabbricate. Se esse contrastano con le sue preferenze, il meglio che può fare è di aspettare che mutino.”

“E se da sé non cambiano?” disse Pietro. “Chi deve cambiarle? Ah, com’è miserabile un’intelligenza che non serve che a fabbricare alibi per far tacere la coscienza. Vattene, fammi almeno questo favore.” (…)

“Ci prepariamo a morire con il rimpianto di non avere vissuto. A volte questa idea mi ossessiona: si vive una sola volta e quest’unica volta si vive nel provvisorio, nella vana attesa del giorno in cui dovrebbe cominciare la vera vita. Così passa l’esistenza. (…)”

“Non bisogna aspettare” disse Pietro. “Anche nell’emigrazione si vive in attesa. Questo è il male. Bisogna agire. Bisogna dire: Basta, da oggi.”

“Ma se non c’è libertà?” disse Nunzio.

“La libertà non è una cosa che si possa ricevere in regalo” disse Pietro. “Si può vivere anche in paese di dittatura ed essere libero, a una semplice condizione, basta lottare contro la dittatura. L’uomo che pensa con la propria testa e conserva il suo cuore incorrotto, è libero. L’uomo che lotta per ciò che egli ritiene giusto, è libero. Per contro, si può vivere nel paese più democratico della terra, ma se si è interiormente pigri, ottusi, servili, non si è liberi; malgrado l’assenza di ogni coercizione violenta, si è schiavi. Questo è il male, non bisogna implorare la propria libertà dagli altri. La libertà bisogna prendersela, ognuno la porzione che può.”

Ignazio Silone “Vino e pane”

(1955,  Arnoldo Mondadori Editore, pagg.157-158)

Quando ci si avvicina al fenomeno kurdo, un ruolo importante è quello dell’etica. E’ facile che gli approcci odierni, determinati prevalentemente da calcoli economici e politici, trascurino completamente riflessioni di tipo morale ed etico. Il fatto che la scienza e la tecnica siano molto più avanti dell’etica e del senso morale, pone le basi per una mentalità pericolosa. L’alleanza spregiudicata con l’economia e la politica di una scienza per nulla influenzata da principi morali ha condotto alle due guerre mondiali, a molte guerre regionali, all’uso della bomba atomica, come conseguenza dell’equilibrio del terrore nucleare, alla distruzione dell’ambiente e ad una politica demografica pericolosa.

Ognuno di questi aspetti da solo potrebbe portare l’umanità sull’orlo del precipizio. E’ assolutamente necessaria quindi un’etica della scienza.

Abdullah Öcalan “Il PKK e la questione kurda nel XXI secolo”

(2013,  Edizioni Punto Rosso, pag.63)

E ora i latifondisti e le società inventano un metodo nuovo. Metton su fabbriche di frutta in conserva e quando le pesche e le pere e le susine sono mature fanno calare il prezzo della frutta fresca al di sotto del costo di produzione. Così comprano la frutta fresca a prezzo irrisorio, ma tengono alto quello della frutta in conserva, e realizzano enormi profitti. E i contadini, i contadini che non possiedono fabbriche di frutta in conserva, perdono i loro frutteti; e i frutteti vengono assorbiti dai latifondisti e dalle banche e dalle società che possiedono le fabbriche di frutta in conserva. I contadini allora si trasferiscono in città, e in poco tempo vi esauriscono il loro credito, e perdono gli amici e s’alienano i parenti e finalmente si riducono anch’essi sulla strada. E le strade sono affollate di gente avida di lavoro, ma avida al punto da esser disposta ad assassinare pur di trovarne.

E le banche e le società si scavano la fossa con le proprie mani, ma non lo sanno. I campi sono fecondi, e sulle strade circola l’umanità affamata. I granai sono pieni e i bimbi dei poveri crescono rachitici e pieni di pustole. Le grandi società non sanno che la linea di demarcazione tra fame e furore è sottile come un capello. E il denaro che potrebbe andare in salari va in gas, in esplosivi, in fucili, in spie, in polizie e in liste nere.

Sulle strade la gente formicola in cerca di pane e lavoro e in seno ad essa serpeggia il furore, e fermenta.

John Steinbeck – “Furore”

(1940,  RCS Libri, pag.254)

L’attuale sistema industriale, invece, trova nella sua dinamica la propria instabilità: è organizzato in funzione di una crescita indefinita e della creazione illimitata di nuovi bisogni che, nella cornice industriale, divengono ben presto necessità. Una volta divenuto dominante in una società, il modo di produzione industriale fornirà questo o quel bene di consumo, passerà da questa a quell’altra merce, ma non ammetterà limiti all’industrializzazione dei valori. Un simile processo di crescita esige dall’uomo una cosa assurda: trovare la propria soddisfazione nel piegarsi alla logica dello strumento.
Ora, la struttura della tecnica di produzione dà forma alle relazioni sociali. La richiesta che lo strumento fa all’uomo comporta un costo sempre più alto; è il costo dell’adattamento dell’uomo al servizio del suo strumento, rispecchiato dalla crescita del terziario nel prodotto globale.
Diventa sempre più necessario manipolare l’uomo per vincere la resistenza opposta dal suo equilibrio vitale alla dinamica industriale; e questa manipolazione prende la forma di molteplici terapie, pedagogica, medica, amministrativa. L’educazione produce consumatori competitivi; la medicina li mantiene in vita nell’ambiente attrezzato che è ormai loro indispensabile; e la burocrazia risponde alla necessità che il complesso sociale eserciti il suo controllo sugli individui applicati a un lavoro insensato. Che attraverso le assicurazioni, la polizia e l’esercito cresca il costo della difesa dei nuovi privilegi, è tipico della situazione connaturata a una società di consumo; è inevitabile che questa comporti due tipi di schiavi: gli intossicati e quelli che vorrebbero esserlo, ovvero gli iniziati e i neofiti.

Ivan Illich – “La convivialità”

(1973,  Edizioni Red!, pag.69)

Si è costruita nel tempo una mitologia degli “Italiani brava gente” nelle guerre di aggressione durante il Secondo Conflitto Mondiale, contrapposta alla barbarie limitata artificialmente ai soli Tedeschi (…)
Una mitologia che ha reso più facile il non punimento dei criminali di guerra fascisti dopo la Seconda Guerra Mondiale: l’Italia è, infatti, a tutt’oggi l’unico fra i Paesi che fecero parte dell’Asse, a fianco dei nazisti, a non aver intentato alcun processo ai suoi criminali di guerra, inclusi i più importanti.

Silvio Marconi – “Donbass. I neri fili della memoria rimossa”

(2016,  Edizionicroce, pag.20)

Una volta visti, i film fluttuano in noi a lungo come arie musicali. Senza conoscerli a memoria, riconosciamo subito la melodia, e la totalità di un film abita ciascuno dei suoi piani. I momenti di attualità televisiva che rimangono in noi scintillano come un caleidoscopio, un mosaico senza forma, una cronaca senza cronologia, delle briciole prive di autore. La TV dà l’ora, non l’anno. Questa fuggevolezza spiega la sua angoscia di fedeltà, la sua ossesione nel “appuntamento regolare” con il telespettatore. Ha bisogno di contrassegnare il tempo perchè lo banalizza. (…)

Pensare significa dire no. Volente o nolente, la TV dice al mondo così com’é; il cinema dice sì, ma; la pittura diceva fino a Manet. Da allora, e ciò costituisce ancora la sua forza particolare, essa dice piuttosto no.

 

Régis Debray – “Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente”

(1999, Editrice Il Castoro, pagg. 260-261)

Con il loro corpo le donne vivono molto vicino alla natura Vita/Morte/Vita. (…) Con la carne e il sangue suo, e con i cicli costanti del riempimento e dello svuotamento del vaso rosso nel suo ventre, la donna comprende, fisicamente, emotivamente e spiritualmente che ogni zenit sbiadisce e spira, e quanto rimane, rinasce poi in modi inaspettati e grazie a mezzi ispirati, per ricadere nel nulla, ed essere di nuovo concepito nella massima gloria. (…)

A volte chi sfugge alla natura Vita/Morte/Vita si ostina a pensare all’amore come a una festa soltanto. Invece l’amore nella sua forma più piena è un susseguirsi di morti e rinascite. Muore la passione e rinasce. Il dolore viene scacciato e rispunta da un’altra parte. Amare significa abbracciare e nel contempo sopportare molte molte fini, e molti molti inizi, il tutto nella stessa relazione.

Il processo è reso complesso dal fatto che la nostra cultura supercivilizzata ha difficoltà a tollerare il trasformativo. (…) In tutto il mondo, pur chiamandola con nomi differenti, molti vedono questa natura come un baile con la Muerte, una danza con la morte. La Morte conduce la danza, sua partner è la Vita.

Clarissa Pinkola Estés – “Donne che corrono coi lupi”

(1992, Pickwick – pagg. 157-158)

Soltanto nel 1980 abbiamo potuto sapere dal ‘Sunday Times’ come morì il figlio di Stalin, Jakov. Catturato dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, fu internato in un campo di prigionia insieme ad un gruppo di ufficiali inglesi. Avevano in comune le latrine. Il figlio di Stalin le lasciava sempre sporche. Agli inglesi non piaceva vedere le loro latrine sporche di merda, anche se si trattava della merda del figlio dell’uomo più potente della terra. Glielo rimproverarono. Lui si offese. Glielo rimproverarono di nuovo più volte e lo obbligarono a pulirle. Lui si arrabbiò, iniziò una lite, venne alle mani. Alla fine chiese di essere ascoltato dal comandante del campo. Voleva che fosse lui a fare da arbitro. Ma l’arrogante tedesco si rifiutò di parlare di merda. Il figlio di Stalin non poté sopportare l’umiliazione. Urlando al cielo terribili ingiurie russe, si lanciò contro il filo spinato percorso dalla corrente elettrica che cingeva il campo di prigionia. Vi cadde sopra. Il suo corpo, che non avrebbe mai più sporcato le latrine degli inglesi, vi rimase appeso. (…)

L’avevano accusato di essere sporco. Lui che porta sulle spalle il dramma più sublime che si possa immaginare (era allo stesso tempo figlio di Dio e angelo caduto), deve forse adesso essere giudicato non per cose elevate (che abbiano a che fare con Dio e gli angeli) ma per della merda? Sono dunque così vertiginosamente vicini il dramma più eccelso e quello più infimo?

Vertiginosamente vicini? La vicinanza può dare la vertigine? (…)

Il figlio di Stalin ha dato la sua vita per della merda. Ma morire per della merda non vuol dire morire senza un senso. I tedeschi che sacrificarono la loro vita per estendere più a oriente i territori del Reich, i russi che morirono perché la potenza del loro paese arrivasse più a occidente, loro sì che morirono per qualcosa di stupido e la loro morte è priva di senso e di validità generale. La morte del figlio di Stalin, invece, fu, nella generale stupidità della guerra, la sola morte metafisica.

 

Milan Kundera – “L’insostenibile leggerezza dell’essere”

(1995, Adelphi- pag. 249)

Sotto un governo che incarcera ingiustamente, anche il vero posto per un uomo giusto è il carcere. Oggi il posto adatto, l’unico posto che il Massachusetts abbia approntato per i suoi spiriti più liberi e meno demoralizzati, è nelle sue prigioni, dove verranno emarginati e chiusi fuori dallo stato per suo stesso intervento, come già si sono emarginati da soli con i loro principi. È lì che li troveranno lo schiavo fuggiasco, il prigioniero messicano in libertà condizionale e l’indiano venuto a denunciare i torti fatti alla sua razza; su quel terreno separato, ma più libero e onorevole, dove lo stato pone coloro che non sono con lui, ma contro di lui – la sola casa in uno stato schiavista in cui un uomo libero possa risiedere con onore.

 

Henry David Thoreau – “La disobbedienza civile”

(Garzanti, 1848, pag. 24-25)

Chi non è in grado di riconoscere la piccolezza delle grandi cose che ha in sé, tende a trascurare la grandezza delle piccole cose negli altri. L’occidentale medio, accecato dal compiacimento di sé, non saprà vedere nella cerimonia del té che un ulteriore esempio delle mille e una stravaganze che costituiscono, ai suoi occhi, la stranezza e la puerilità dell’Oriente. L’occidentale medio si era abituato a considerare barbaro il Giappone nel periodo in cui si dedicava alle delicate arti della pace, e lo chiama civile da quando ha iniziato a compiere massacri sui campi di battaglia della Manciuria. Recentemente si è molto parlato del Codice dei Samurai, dell’Arte della Morte che induce i nostri soldati ad autosacrificarsi esultando, mentre non è stata prestata praticamente nessuna attenzione al téismo, che così profondamente rappresenta la nostra Arte della Vita. (…)

Perché il téismo è l’arte di celare la bellezza così che la si possa scoprire, di accennare quello che non osiamo rivelare apertamente. É il nobile segreto di saper ridere di se stessi, pacatamente, ma senza reticenze, ed è quindi lo humor stesso – il sorriso della filosofia.

 

Kakuzo Okakura –  “Lo zen e la cerimonia del te”

(Feltrinelli, 1995, pagg. 10-12)

Penso a quando entravo a nuoto con lui nella grotta, a quella corrente di acqua limpida, a come cambiava, alla velocità e alla forza che prendeva quando passava nelle strettoie tra gli scogli ai piedi del promontorio.

La marea doveva essere al punto giusto.

Dovevamo essere in acqua nel preciso momento in cui la marea era al punto giusto.

Nei due anni che abitammo là potevamo averlo fatto solo una mezza dozzina di volte al massimo, ma questo è il mio ricordo. Ogni volta che lo facevamo, avevo paura di farmi sfuggire la marea, di restare indietro, di sbagliare il tempo. John mai. Dovevi sentire che cambiava, la marea.

E dovevi abbandonarti al cambiamento. Così mi diceva lui.

 

Joan Didion – “L’anno del pensiero magico

(Il Saggiatore, 2008, pag. 79)

Niente è più tedioso di ripetere le scale al pianoforte o di ripercorrere un grano dopo l’altro il rosario. Eppure i capolavori dell’arte, l’efficacia della preghiera, la bellezza del rito e la forza del carattere dipendono da minime ripetizioni, ciascun istante delle quali, preso in sé, sembra assolutamente inutile.

 

James Hillman – “La forza del carattere

(Adelphi, 1999, pag. 113)

L’uomo tende a rimettersi agli apparati e a far loro posto anche quando dovrebbe attingere alle proprie intime risorse. Dà prova in tal modo di mancanza di immaginazione. Eppure dovrebbe conoscere i punti in cui non è lecito mercanteggiare la propria sovrana libertà di decisione. Fintantoché regna l’ordine, l’acqua scorre nelle tubature e la corrente arriva alle prese. Non appena la vita e la proprietà sono in pericolo, come d’incanto un allarme chiama i vigili del fuoco e la polizia. Ma il grande rischio è che l’uomo confidi troppo in questi aiuti e si senta perduto se essi vengono a mancare. Ogni comodità ha il suo prezzo. La condizione dell’animale domestico si porta dietro quella della bestia da macello.

 

Il mito non è storia remota; è realtà senza tempo che si ripete nella storia.

 

Ernst Jünger – “Trattato del ribelle

(Adelphi, 1951, pag. 40-54)

La scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle. Se ne costruisce dei modelli interni e, operando su questi indici o variabili, le trasformazioni consentite dalla loro definizione, si confronta solo di quando in quando con il mondo effettuale. (…) Ma la scienza classica conservava il senso dell’opacità del mondo ed era il mondo che intendeva raggiungere con le sue costruzioni; (…) È necessario che il pensiero scientifico – pensiero di sorvolo, pensiero dell’oggetto in generale – si ricollochi in un “c’é” preliminare, nel luogo, sul terreno del mondo sensibile e del mondo lavorato. (…) In questa storicità primordiale, il pensiero allegro e improvvisatore della scienza imparerà a riancorarsi alle cose stesse e a se stesso, ridiventerà filosofia…

 

Maurice Merleau-Ponty – “L’occhio e lo spirito

(Se, 1960, pag. 13-15)

Il pensiero è che i valori che sono presenti quando si consegue la vittoria siano i valori che creano la vittoria. Nelle nebbie deformanti dell’euforia nazionale la negligenza morale e la sterilità ideologica che hanno condotto al conflitto non sono più viste come tali, né sono viste come continuanti nell’identità della nazione, perché quell’identità non è mutata, non ha subito alcuna purga rivoluzionaria nell’intestino o nella testa. Una guerra, con la sofferenza umana che l’accompagna, deve, quando quel male è inevitabile, essere fatta a pezzettini più degli edifici; deve infrangere le fondamenta del pensiero e ricreare. Solo così ogni individuo condivide il cataclisma e comprende lo scopo del sacrificio.

 

Wole Soyinka – “L’uomo è morto”

(Jaka Book, 1972, pag. 193)

Ciò che più colpiva le menti di quegli uomini che si erano trasformati in assassini, era semplicemente l’idea di essere elementi di un processo grandioso, unico nella storia del mondo (“un compito grande, che si presenta una volta ogni duemila anni”) e perciò gravoso. Questo era molto importante, perché essi non erano sadici o assassini per natura; (…) Perciò il problema era quello di soffocare non tanto la voce della loro coscienza, quanto la pietà istintiva, animale, che ogni individuo normale prova di fronte la sofferenza fisica degli altri. (…) E così, invece di pensare: che cose orribili faccio al mio prossimo!, gli assassini pensavano: che orribili cose devo fare nell’adempimento dei miei doveri, che compito terribile grava sulle mie spalle! (…) Il fattore più importante, come Hitler aveva calcolato e previsto, era lo stato di guerra in sé e per sé. Eichmann insisté più volte sul fatto che “l’atteggiamento personale” nei confronti della morte non poteva non cambiare quando “si vedevano morti dappertutto” e quando ciascuno pensava con indifferenza alla propria morte.

 

Hannah Arendt – “La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme

(Feltrinelli Editore Milano, 1964, pag. 126-126)

Il sogno è una porticina nascosta nei recessi più profondi e segreti dell’anima, che si apre su quella notte cosmica che era già psiche molto prima che ci fosse una qualche coscienza dell’Io, e che tale rimarrà per quanto la coscienza dell’Io possa espandersi. (…) La coscienza separa sempre, ma nei sogni assumiamo le sembianze di quell’uomo più universale, più vero, più eterno che dimora nella buia notte primordiale. Là quell’uomo è ancora il tutto, e il tutto è in lui, indistinguibile dalla natura e privo di ogni coscienza dell’Io.

 

Joseph Campbell – “Riflessioni sull’arte di vivere”

(Tea, 1988, pag. 119)

No, non capisco. Ma faccio un cenno di assenso silenzioso con la testa. Mi sento dissolto, sono infinitamente piccolo, sono un punto…

In fin dei conti, questa condizione puntiforme ha una sua logica (quella d’oggi): in un punto si concentra il maggior numero di incognite; basta che esso si sposti, si muova, per potersi trasformare in migliaia di curve diverse, in centinaia di corpi.

Ho il terrore di muovermi: in che cosa mi trasformerò? E ho l’impressione che tutti, come me, temano anche il minimo movimento. Ecco, in questo momento, mentre scrivo, tutti siedono, rinserrati nelle loro celle di vetro, in attesa di qualcosa. In corridoio non si sente il ronzio dell’ascensore, consueto a quest’ora, non si sentono risate, passi. Talvolta vedo gente che, a gruppi di due, guardandosi intorno, percorre il corridoio in punta di piedi, bisbiglia…

Cosa succederà domani? In che cosa mi trasformerò domani?

 

Zamjatin, E. – “Noi”

(Mondadori Libri S.p.A., 2018, pag. 141)

L’aria sorniona di Eloi non lascia dubbi sul fatto che si sta divertendo a dipingermi il mondo dal suo punto di vista. Acquista una salsiccia fumante e ci soffia sopra prima di azzannarla.

Indica la banca: “Avrai certo sentito nominare i Fugger di Augusta: i banchieri dell’Impero. Non c’è un porto in Europa dove non ci sia una loro filiale. Non c’è commercio in cui non ci sia una loro anche minima partecipazione. I nostri mercanti sarebbero persi senza il denaro che i Fugger mettono a disposizione per finanziare i loro viaggi. Carlo V non sposterebbe un solo soldato se non avesse un credito illimitato presso i loro forzieri. Del resto, l’Imperatore deve ai Fugger la sua corona, la guerra contro la Francia, la crociata contro i Turchi e il mantenimento di tutte le sue puttane. Li ha ricambiati donando loro l’usufrutto delle miniere ungheresi e boeme, la riscossione delle tasse in Catalogna, il monopolio dell’estrazione mineraria nel Nuovo Mondo, e chissà cos’altro”. La salsiccia punta verso l’edificio che si erge lì davanti. “Credimi, senza i Fugger e il loro denaro quell’uomo sarebbe in rovina da un pezzo”. Ruota la testa in tutte le direzioni. “E forse tutto questo non esisterebbe”.

Si pilucca le dita unte con l’aria più naturale del mondo.

Faccio qualche passo verso il centro della strada, scruto la costruzione anonima, massiccia, poi mi guardo intorno un po’ confuso, sentimenti opposti mi si accavallano dentro, rabbia, stupore, anche ironia. Mi fermo e ad alta voce butto fuori tutto quanto: “Perché nessuno mi ha mai parlato delle banche?

 

Luther Blissett – “Q”

(Einaudi, 1999, pag. 358-360)

Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola uno sull’altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in sconfitta, e scrosta la ceralacca dei sigilli di re mai sentiti nominare che implorano la protezione delle nostre armate avanzanti in cambio di tributi annuali in metalli preziosi, pelli conciate e gusci di testuggine: è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza dine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina.

 

Italo Calvino – “Le città invisibili”

(Einaudi, 1972, pag. 13.)

Al principio i sogni furono caotici; poco dopo, di natura dialettica. Lo straniero si sognava nel centro d’un anfiteatro circolare che era in qualche modo il tempio incendiato; nubi di alunni taciturni ne appesantivano i gradini; i volti degli ultimi si perdevano a molti secoli di distanza e ad un’altezza stellare, ma erano del tutto precisi. L’uomo dettava lezioni d’anatomia, di cosmografia, di magia: quei volti ascoltavano con ansietà e procuravano di rispondere con senno, come se indovinassero l’importanza di quell’esame, che avrebbe riscattato uno di loro dalla condizione di vana apparenza, e l’avrebbe interpolato nel mondo reale. Nel sogno, o più tardi da sveglio, l’uomo considerava le risposte dei suoi fantasmi, non si lasciava ingannare dagli impostori, indovinava in certe perplessità un’intelligenza crescente. Cercava un’anima che meritasse di partecipare all’universo.

 

Jorge Luis Borges – “Finzioni”

(Einaudi, 1985, pag. 49)

Gli archetipi sono fattori formali che coordinano processi psichici inconsci: sono “patterns oh behaviour”. Al tempo stesso gli archetipi hanno una “carica specifica”: sviluppano effetti numinosi che si manifestano come affetti. L’affetto provoca un parziale abaissement du niveau mental, elevando un determinato contenuto a un livello di chiarezza superiore al normale, ma sottraendo anche in pari misura agli altri possibili contenuti della coscienza tanta energia che essi si oscurano, diventano inconsci. In conseguenza dell’effetto restrittivo esercitato sulla coscienza dall’affetto, si manifesta un calo dell’orientamento cosciente corrispondente alla durata dell’affetto, calo che a sua volta offre all’inconscio un’occasione favorevole per inserirsi nello spazio lasciato vuoto. È quindi un’esperienza quasi regolare che nell’affetto erompano e giungano a manifestarsi contenuti inattesi, che non di norma sono inibiti o inconsci. Tali contenuti sono non di rado di natura inferiore o primitiva e tradiscono quindi la loro origine archetipica.

 

Carl Gustav Jung – “La sincronicità”

(Biblioteca Bollati Boringhieri, 2007, pag. 33)

Il contrasto tra Rousseau e Nietzsche può essere bene illustrato proprio dal diverso atteggiamento che l’uno e l’altro assumono rispetto alla naturalità e artificialità dell’eguaglianza e della diseguaglianza. Nel Discorso sull’origine della diseguaglianza, Rousseau parte dalla considerazione che gli uomini sono nati uguali, ma la società civile, vale a dire la società che si sovrappone lentamente allo stato di natura attraverso lo sviluppo delle arti, li abbia resi diseguali. Nietzsche, al contrario, parte dal presupposto che gli uomini siano per natura diseguali (ed è un bene che lo siano perché, fra l’altro, una società fondata sulla schiavitù come quella greca era, proprio in ragione dell’esistenza degli schiavi, una società evoluta) e soltanto la società, con la sua morale del gregge, con la sua religione della compassione e della rassegnazione, li ha resi eguali. Quella stessa corruzione che, per Rousseau, ha generato la diseguaglianza, ha generato, per Nietzsche, l’eguaglianza. Là dove Rousseau vede diseguaglianze artificiali, e quindi da condannare e da abolire perché in contrasto con la fondamentale eguaglianza della natura, Nietzsche vede un’eguaglianza artificiale, e quindi da esecrare in quanto riduttiva della benefica diseguaglianza che la natura ha voluto regnasse fra gli uomini. L’antitesi non potrebbe essere più radicale: in nome dell’eguaglianza naturale, l’egualitario condanna la diseguaglianza sociale: in nome della diseguaglianza naturale, l’inegualitario condanna l’uguaglianza sociale.

 

Norberto Bobbio – “Destra e sinistra – Ragioni e significati di una distinzione politica”

(Donzelli Editore, 1994, pag. 76)

Il terzo tipo di violenza è la violenza dello stato,  che va distinta dalla violenza giuridica nella misura in cui, rivolgendosi verso l’esterno, si basa non sulla differenza tra torti e ragioni, bensì su quella tra amico e nemico, differenza a cui Carl Shmitt ha legato l’essenza e il concetto del politico. Anche questa ripartizione, però, è troppo limitata in quanto presuppone un concetto del politico che consenta di distinguere tra amico e nemico. Infatti, la differenza tra amico e nemico non fonda il politico in generale, bensì la violenza, in particolare la violenza esercitata in nome dello stato nei confronti dei nemici esterni e interni dello stato stesso. La differenza tra violenza giuridica e violenza dello stato è importante anche in riferimento alla categoria di stato d’eccezione, costitutiva, secondo Schmitt, del concetto di sovranità. L’eccezione si caratterizza attraverso la limitazione che impone alla violenza giuridica; d’ora in poi gli interessi dello stato prevalgono sugli interessi giuridici, mentre la violenza dello stato si espande fino ad invadere ambiti protetti tramite e della violenza giuridica.

Jan Assmann – “Non avrai altro Dio”

(Il Mulino, 2007, pag. 17)

Mi riusciva sempre più difficile districare il mondo della magia da quello che oggi chiamiamo l’universo della precisione. Ritrovavo personaggi che avevo studiato a scuola come portatori della luce matematica e fisica in mezzo alle tenebre della superstizione, e scoprivo che avevano lavorato con un piede nella Cabbala e l’altro in laboratorio. Stavo forse rileggendo la storia intera attraverso gli occhi dei nostri diabolici? Ma poi trovavo testi insospettabili che mi raccontavano come i fisici positivisti appena usciti dall’università andassero a pasticciare per sedute medianiche e cenacoli astrologici, e come Newton fosse arrivato alle leggi della gravitazione universale perché credeva che esistessero forze occulte (mi ricordavo delle sue esplorazioni nella cosmologia rosacrociana).

Mi ero fatto un dovere scientifico dell’incredulità, ma ora dovevo diffidare anche dei maestri che mi avevano insegnato a diventare incredulo.

 

Umberto Eco – “Il pendolo di Foucault”

(Bompiani, 1988, pag. 380)

Lieve era il suo aggettivo preferito. Le foglie che cadono, le pagine voltate piano, un maglione di cachemire posato sulle spalle, la vibrazione del cellulare sempre silenziato. Da quando lei e babbo si erano separati mamma aveva sviluppato una predilezione per tutto quello che non lascia impronte e si sdegnava solo per le cose urlate, le righe oltrepassate, gli stridori. Aver sposato un uomo che aveva gridato per venticinque anni le aveva lasciato un segno profondo, e se non mi avesse detto che il risultato delle analisi era lieve forse avrei pensato che davvero non ci fosse nulla più di un’ombra.

Ma c’è qualcosa che non mi stai dicendo?

Lei rimase per qualche secondo rivolta allo scaffale rimettendo il pacco di riso in mezzo agli altri, poi si voltò a guardarmi.

Dice il medico che nel polmone ho qualcosa

Qualcosa. Quella parola vaga mi fece paura più di una sentenza esplicita. Le cose senza contorno mi riportavano alla condizione affidataria dell’infanzia, al timore atavico degli armadi socchiusi, al rifiuto ostinato di prestarmi al gioco buio della mosca cieca. Nella nostra casa fatta tutta di spigoli l’unica cosa sfumata era stata una macchia scura sulla carta da parati del soggiorno. Ci ero passata accanto mille volte con quell’indifferenza che gli adulti chiamano familiarità, fino al giorno in cui una compagna del liceo non mi aveva domandato cos’era quell’alone, rivelandone la natura estranea. “Chi ha fatto la macchia?” Non lo sapevo. Chi abitava lì prima di noi? Neanche quello sapevo. Quell’ombra era un frutto lanciato contro il muro durante una lite? O magari il pianto che il figlio degli inquilini precedenti aveva affidato alla parete, sicuro che tenesse il segreto?

In casa mia c’era un modo pauroso di far esistere le cose e consisteva nel non nominarle mai. Io i nomi delle cose li pretendevo.

 

Davanti alle tazze sporche di un caffè preso malvolentieri, sapevo di non aver più bisogno di spiegargli che una famiglia è il posto dove essere sangue del sangue significa essere l’uno la ferita dell’altro.

 

Bisogna essere molto attenti per riconoscere nei gesti altrui il suono sordo della ceramica scheggiata.

 

Michela Murgia – “Chirù”

(Einaudi, 2015, pag. 143, pag.125, pag.59)