Complottismo e dissenso: un legame da ristabilire

  • di Vanina Sartorio

Dissenso: Critica vivace e serrata, operata dall’interno (ma che può talora risolversi in decisa opposizione) alle strutture di partiti, di organizzazioni sociali, politiche o religiose, per profonde divergenze circa le posizioni teoriche e ideologiche, le direttive, le linee d’azione sia in generale sia riguardo a problemi particolari.

Complottista: s. m. e f. e agg. Chi o che ritiene che dietro molti accadimenti si nascondano cospirazioni, trame e complotti occulti. ◆ proprio in un momento di evidente, clamorosa difficoltà di chi sostiene che il prezzo della guerra è comunque da pagare, il mugugno «complottista» ha grandemente impoverito le ragioni evidenti di chi accusa la guerra irachena di avere innescato caos e distruzione, instabilità politica e sangue a fiumi. (Michele Serra, Repubblica, 9 marzo 2005, p. 1, Prima pagina).

(Fonte: www.Treccani.it)

È emblematico che per contestualizzare il significato della parola “complottista” si sia scelta una frase che apre ben più ampie riflessioni di quanto probabilmente fosse nelle intenzioni degli autori Treccani (e della quale pare si siano nel frattempo dimenticati).

L’argomentazione di Serra del 2005, infatti mette in luce diversi risvolti, anche grotteschi, del significato di uno dei termini più usati e abusati oggi e del suo rapporto sempre più ambiguo col fronte del dissenso.

In primo luogo perché, anche se non sappiamo a quale specifico “mugugno” Serra si riferisca, possiamo supporre che i complottisti dell’epoca fossero coloro che negavano la veridicità della narrazione promossa dalla coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti a sostegno dell’intervento bellico contro l’Iraq. Il fronte interventista, infatti, si basava sull’affermazione che Saddam Hussein fosse in possesso di armi di distruzione di massa e avesse un coinvolgimento nel terrorismo islamista. Entrambe queste speculazioni si sono poi rivelate false, così come le prove a loro sostegno.

Chi affermava fossero solo pretesti atti a destabilizzare uno Stato per poi imporsi in una sorta di neocolonialismo (quelli bollati già allora come complottisti) avevano dunque ragione. E questa constatazione rende ancora più doloroso, con il senno di poi, il senso dell’articolo di Serra.

L’etichetta complottista, cioè, una volta applicata, delegittima qualsiasi presa di posizione, anche se inattaccabile dal punto di vista logico, morale, scientifico.

Serra addirittura sosteneva che il “mugugno complottista” impoverisse le altre “ragioni evidenti” in quel caso a sfavore della guerra.

Che oggi si sappia che quel mugugno non fosse un delirio, ma avesse delle solide basi rivelatesi fondate, non sposta il fatto che dubitare della narrazione dominante venga costantemente visto con sospetto e di conseguenza stigmatizzato, oggi come ieri.

Le “altre ragioni evidenti” a cui adduce Serra vengono così espresse nell’articolo di Repubblica citato appunto da Treccani del 2005, dunque a guerra inoltrata: «(…) caos e distruzione, instabilità politica e sangue a fiumi sono le ovvie conseguenze di una guerra, di tutte le guerre. Non esistono guerre che portano altro da questo, non c’è bisogno di stare due anni a guardare i Tg (sempre e comunque ad arte rimaneggiati) per giungere a queste conclusioni. Eppure, nonostante secoli di storia ce lo insegnino, la consapevolezza di questa banalità non è mai servita ad evitare alcuna guerra».

Ma se “la consapevolezza di questa banalità non è mai servita ad evitare alcuna guerra”, perché rifiutare a priori le voci di coloro i quali pongono domande sulle reali ragioni che muovono i conflitti? Ragioni concrete, pragmatiche che evidenziano l’ipocrisia che si cela dietro le guerre “morali” che le democrazie occidentali cercano così di farci digerire. Non è più efficace, per smontare una tesi, abbatterne le fondamenta anziché controbattere con altre tesi? Perché dunque tapparsi le orecchie, chiudere gli occhi a priori di fronte a ipotesi che potrebbero rivelarsi valide (come in questo caso di fatto è successo)?

La risposta a questa domanda ci viene proprio dall’analisi dell’origine della parola “complottismo”, la quale dimostra che questo neologismo sia stato creato appositamente per raggiungere l’effetto “screditante” che di fatto ha assunto.

Nel suo libro “Sotto la notizia niente”, Franco Fracassi dedica il primo capitolo dal titolo “L’emarginazione del dissenso” proprio alla genesi di questa nuova parola.

A detta di David Finn, intervistato dallo stesso Fracassi e titolare della più importante agenzia di relazioni pubbliche del mondo (La Ruder Finn, fondata nel 1948 e che lavorò a campagne di comunicazione commissionate da governi, banche, società finanziarie, ecc.), nel 1994:

«(…) venne da me un alto dirigente del Dipartimento di Stato, uno dei nostri clienti più munifici. Il problema di cui dovevamo venire a capo era particolarmente spinoso e complicato da risolvere. “Bisogna far sì che in futuro i giornalisti non mettano in dubbio la verità che viene affermata dal Governo. Basta domande. Basta inchieste indipendenti”“Una sfida affascinante” disse, “Impiegammo un po’ di tempo per venirne a capo. Poi ci venne in mente un termine, una parola che aveva avuto una sua efficacia subito dopo l’assassinio del Presidente Kennedy: ‘complottista’. Il termine in sé non voleva dire nulla, ma evocava cose brutte, come colpi di Stato o come attentati terroristici. (…) Contattammo alcuni produttori e degli sceneggiatori di Hollywood. Negli anni successivi nacque un nuovo filone cinematografico, quello dei complotti sventati dai semplici cittadini, al massimo da intraprendenti reporter. (…) Lo scopo era di preparare il terreno. (…) In tutti questi film i protagonisti erano personaggi asociali, disturbati mentalmente o anche solo poco inclini alle regole. In tutti questi film i protagonisti alla fine avevano ragione. Chi usciva dal cinema pensava: ‘Nelle alte sfere del potere c’è chi trama contro di noi. Bisogna essere vigili’. Ma subito dopo il cervello archiviava il tutto nella voce ‘film’ e quindi qualcosa di non reale. (…) quel che si vede nei film è opera di fantasia. Il nostro cervello lo sa. E così – ha spiegato in conclusione Finn – i cervelli di milioni di persone hanno iniziato ad archiviare come irrealistici scenari in cui un potere X cercava di limitare le loro libertà in qualche modo”.»

Che il condizionamento abbia funzionato perfettamente è sotto gli occhi di tutti e che la verità non possa in alcun modo scalfirlo è dimostrato dalla nonchalance con cui lo stesso Finn racconta l’episodio.

Oggi addirittura assistiamo a un’ulteriore involuzione del credito goduto da questa parola, la quale sembrerebbe aver perso ogni legame con il concetto di “dissenso” (che invece pare avere conservato la propria sacrosanta legittimità ad esistere ed essere esercitato) per scivolare sempre più verso un’accezione esclusivamente negativa per via di associazioni sempre più incalzanti ad altri termini, ma che, ad un’analisi anche sommaria, risultano del tutto gratuite.

Soprattutto durante la “pandemia” abbiamo assistito a un sempre crescente accostamento (teso al discredito) delle ipotesi complottiste (chi cioè non appoggiava le scelte governative su chiusure, limitazione dei diritti e obbligo vaccinale, vedendoci dietro interessi politici ed economici dovuti a collusioni con le case farmaceutiche) al terrapiattismo.

Ma anche qui vediamo che ciò che appare casuale, molto spesso non lo è.

È sempre il libro di Fracassi a fare luce sulla nascita del terrapiattismo, teoria creata ad arte, ancora una volta dall’agenzia Ruder Finn:

Ci era stato assegnato un nuovo lavoro: screditare dal punto di vista scientifico i ricercatori ‘insubordinati’ ed estendere ai blogger il bavaglio che era stato messo ai media dopo l’11 settembre.(…) La nostra idea era quella di creare una nuova moda scientifica, chiaramente improponibile per qualsiasi persona che si autodefinisse seria ma che avesse appeal sufficiente per attirare un po’ di seguaci. L’importante era ci fosse un numero sufficiente di seguaci da renderla una storia per i media. Tutto il resto sarebbe venuto da sé.”

Sargent pubblicò nel 2015 una serie di video su YT intitolati “Flat Earth Clues” (indizi sulla Terra piatta), che mettevano in dubbio la forma accettata della Terra. Dieci milioni di persone guardarono quei video, favorendo l’ascesa del moderno movimento della Terra piatta.

Sargent sostenne che tutti i governi del mondo avevano mentito sulla forma del pianeta e che la Nasa aveva falsificato il programma Apollo e tutti gli altri programmi di esplorazione spaziale. (…)

“Grazie al nostro uomo avevamo una meravigliosa teoria assurda, fuori dal tempo, e soprattutto fuori dalla scienza, che era il principale obiettivo che ci eravamo prefissati. Non avrebbe importato, poi, quante persone effettivamente credessero al fatto che la Terra potesse essere piatta. Migliaia di giornali, televisioni, blog, siti di ogni genere, pagine Fb parlavano dei terrapiattisti. Eravamo riusciti a introdurre una nuova categoria di paria nella società. Qualcosa che ci sarebbe tornato molto utile in futuro. E che certamente sarebbe tornato utile ai nostri committenti”.

Oggi pare evidente che l’operazione abbia dato e continui a dare i suoi frutti perché dimostra ai conformisti che esistono persone in grado di dubitare di tutto, dimostra che non vale la pena perdere tempo ad ascoltarle perché le loro argomentazioni sono deliranti e che a mettere in discussione la Scienza ufficiale ci si rende solo ridicoli.

Fornisce dunque un pretesto a non informarsi in modo autonomo, attraverso un’operazione di riduzione della complessità, negando l’esistenza di più visioni di una stessa narrazione, di una pluralità di punti di vista che andrebbero tutti vagliati per farsi un’idea propria, a favore di due soli schieramenti. In uno dei quali c’è chi nega la Scienza e va di conseguenza rifiutato in blocco.

In realtà però non esiste una teoria del complotto univoca su un determinato argomento, anzi il più delle volte non si tratta nemmeno di teorie che si pongono in alternativa al racconto dominante, semplicemente si teorizza la volontà da parte di chi detiene il potere di nascondere informazioni fondamentali per non rendere manifesta la povertà e la mancanza di solidità della narrazione ufficiale. Certo, a lato possono sorgere mille possibili interpretazioni alternative che tentano di spiegare determinati fenomeni in modo diverso, ma il punto fondamentale (che poi determina il nome dell’etichetta e la sua origine) è che il complottista non prende per buona a priori la versione ufficiale, che molto spesso è oggettivamente piena di falle, e indaga autonomamente, attraverso canali alternativi per formarsi la sua verità.

Il problema sta dunque nel coprire sotto lo stesso immenso cappello teorie alternative abbracciate da numerosi studiosi e giornalisti non allineati, che portano evidenze, dati, documenti, studi a proprio supporto (come per la questione della guerra Russo-Ucraina, della gestione pandemica, dell’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre ad esempio), accanto ad altre completamente assurde (come il caso appunto del terrapiattismo). Io stessa mi sono dovuta ricredere su molte questioni che reputavo ridicole per il semplice fatto di non essermene interessata e non averne approfondito le ragioni. Perché questo è l’atteggiamento che ci è stato insegnato ad avere nei confronti di tutto ciò che viene rifiutato dal mainstream: additare e irridere; è così facile, così comodo, così rassicurante, soprattutto se fatto in gruppo e al seguito di qualche personaggio istituzionale.

Non sarebbe allora più corretto, dal punto di vista semantico se non altro, non definire “complottiste” le teorie che non sono nemmeno teorie, le deliranti invenzioni palesemente infarcite di fake news? Non dovrebbe essere così complesso distinguerle dalle inchieste serie e ben documentate, se i fact checker facessero il loro mestiere; forse semplicemente non c’è la volontà di farlo.

Ho trovato in rete persino studi psicologici che descrivono il complottismo come “disfunzionale” e indice di paranoia.

Eppure sono stati molti i casi in passato, oltre alla succitata questione “Guerra del Golfo” in cui aziende, politici, militari, detentori di potere hanno coperto di proposito informazioni che sarebbero state preziose per salvare delle vite, ai fini di perpetrare il potere stesso (il caso Teflon e Dupont, azienda ancora oggi sotto continui processi per omicidio colposo dei propri dipendenti, il caso Pacific Gas & Electric nel 1993 per la contaminazione con cromo esavalente delle acque della città di Hinkley in California per oltre 30 anni, reso celebre dal film Erin Brockovich, il caso di Camel e delle industrie del tabacco, il caso della talidomide, distribuita dalla società farmaceutica tedesca Grünenthal che ha causato la nascita di migliaia di bambini focomelici, la questione di Eternit, ancora penosamente attuale, solo per citare alcuni di moltissimi esempi).

Guerre di “democratizzazione”, produzione di materiali pericolosi per la salute, inquinamento di falde acquifere, messa in commercio di farmaci non testati, sono episodi successi innumerevoli volte nella nostra storia moderna, documentati e accettati (di solito quando ormai i colpevoli non sono più perseguibili), ma, non appena qualcuno di fronte a una nuova guerra, un nuovo farmaco, un nuovo prodotto innovativo, dubita, viene tacciato di complottismo. E nessuno che porga le proprie scuse, quando dopo una trentina d’anni salta fuori che quel qualcuno aveva ragione. Scuse che sarebbero del tutto superflue se, perlomeno, persone come Serra facessero tesoro dei propri errori e adottassero un atteggiamento diverso nel presente alla luce dei propri giudizi affrettati del passato.

Purtroppo non è così (basti pensare alle posizioni di questi personaggi nei confronti di Putin e della guerra in Ucraina), evidentemente perché chi è arrivato in determinate posizioni oggi, ci è riuscito anche grazie all’essere sempre rimasto a braccetto con il potere istituzionale, per calcolo o per non aver mai sentito l’esigenza di opporsi.

E il complottismo si riduce a essere una spina nel fianco, anche per i complottisti stessi. Sì perché, mentre il dissenso è accettato, dal momento che si basa su una critica prevalentemente ideologica, teorica e quindi tiene occupati i ribelli in infiniti discorsi che possono essere ascoltati o meno, le teorie del complotto si riferiscono a fatti ben precisi, muovono accuse dirette contro figure chiave della politica, informazione ed economia, non si limitano a un “non sono d’accordo”, dicono “voi siete dei bugiardi”.

Un’operazione sacrosanta verrebbe da dire, che tutti dovrebbero caldeggiare nel momento in cui porta evidenze che altrimenti resterebbero ignote, se non fosse che in questo modo si obbligano i conformisti a scomodarsi dalla propria posizione privilegiata di appartenenza alla maggioranza.

Il dissenso si può in qualche modo incanalare e assorbire perché punta il dito contro le idee che considera sbagliate, ingiuste (e le idee, si sa, sono tutte degne se non altro di essere espresse) perché, in fondo, il dissenso cerca il dialogo con il consenso.

Il complottismo invece è violento, intransigente, perché punta il dito contro l’inganno. Non c’è dignità nell’inganno del potere e non c’è possibilità di negoziazione finché non si avranno le risposte che mancano alle domande scomode.

Ecco perché il complottista fa più paura e deve essere a tutti i costi depotenziato, delegittimato.

Sembra essere dunque una situazione senza via di uscita, il classico caso del gruppo dei più forti che bullizza l’individuo singolo e indifeso il quale ha l’ardire di sottrarsi all’appartenenza forzata alla maggioranza. Ma, proprio come in queste situazioni, l’unico modo per disinnescare i bulli, è fregarsene della loro opinione e non vergognarsi di ciò che si è.

È inutile coniare neologismi tipo “dissenso radicale” per sfuggire all’etichettatura e tentare di dare dignità a posizioni che sono del tutto legittime, ma che evidentemente ci si vergogna di difendere apertamente.

In questo modo si abdica al bullismo. Ci si lascia convincere che non abbiano tutti i torti.

Il termine “Complottista” non ha di per sé alcuna accezione negativa e, se significa vagliare diverse ipotesi prima di farsi un’opinione su qualsiasi avvenimento, scavare per mettere alla prova le risposte preconfezionate da altri (e dall’alto) alle mie domande, allora voglio riprendermelo e poter affermare di essere complottista.

E se tutti quelli che la vedono in questo modo, fossero fieri del proprio complottismo, le dita puntate, perderebbero gradualmente potere e le teorie valide sarebbero finalmente epurate dalla piaga terrapiattista volontariamente scagliata nella nostra società.

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