Da ragazzino tifavo Inter, non sono mai stato un tifoso sfegatato, diciamo un simpatizzante. Guardavo ogni tanto le partite con gli amici o con mio nonno, mi è capitato alle volte di andare a San Siro, mi sono felicitato, dire che ho gioito sarebbe forse esagerato, per il triplete di José Mourinho e per il suo famigerato “zero tituli”. Non sono mai stato un tifoso troppo convinto insomma. Poi quando se ne andò Moratti, non che stimassi Moratti per carità, ma quando se ne andò, quella squadra perse un’ulteriore attrattiva, come se il suo processo di snaturamento avesse raggiunto un punto di non ritorno. Nel frattempo, divenni via via più consapevole di tutto lo schifo che ruota attorno al mondo del calcio, dalla piccola criminalità nelle curve a quella più grande e sottile delle dirigenze. Sempre meno calciatori rimasti attaccati ad un ideale diverso da quello del denaro. Sempre più soldi, più speculazioni, più volgarità e meno stile, anche nel gioco; un po’ come uno specchio della società.
Forse lo scudetto di una squadra “periferica” come il Napoli può apparire come un’inversione di tendenza al degrado in atto, ma più probabilmente, seppur ci siano ancora delle storie vere e avvincenti che dimostrano come una squadra unita possa compiere dei miracoli, come quella del Leicester di Claudio Ranieri di qualche anno fa, esse mi paiono rappresentare solamente delle eccezioni alla regola squallida e imperante del mercato.
Eppure, reduce da due semifinali di coppa dei campioni a Milano, mi rendo conto di quanto ancora questo sport faccia presa su tante persone, per non parlare di amici ormai ultratrentenni che, oltre a guardare ogni fine settimana quasi tutte le partite di serie A, passano ore e ore a giocare al “fantacalcio”. Martedì sera Milano era invasa da interisti per la vittoria sul Milan, grida e cori per le strade, bandiere, piazza Duomo colma di gente, fuochi d’artificio e mi sono chiesto come sia possibile tutto ciò. Potrei cavarmela citando aristocraticamente il panem et circenses latino, con cui Giovenale descriveva le aspirazioni della plebe nell’antica Roma: pane e giochi. Ma, premesso che il prezzo del pane sia in continua crescita e i giochi – come ho sostenuto precedentemente – non siano più nemmeno veri giochi, credo che ci sia dell’altro.
Il calcio non è solo un intrattenimento, uno dei tanti modi di volgere lo sguardo altrove di fronte alle storture dei nostri tempi o ai problemi personali, che ognuno di noi affronta nella vita di tutti i giorni e che cerca di dimenticare per quei 90 minuti. C’è dell’altro. In un momento storico in cui sempre più persone si sentono schiacciate dal non senso e sentono di non avere nessun potere di trasformare la realtà, le emozioni vengono gradualmente inibite. Le emozioni erano un rischio durante l’emergenza sanitaria, perché ci potevano condurre ad avvicinarci alla sofferenza dell’altro, quell’altro trasformato in pericolo perché contagioso. Le emozioni sono un rischio oggi perché ci potrebbero spingere ad indignarci di fronte alle istituzioni di un Paese, il nostro, che alimenta il fuoco di una guerra e svende la propria economia. Le emozioni sono un rischio per il cittadino, per l’artigiano o il piccolo imprenditore, schiacciato dalle logiche del mercato e abbandonato dal proprio Stato che ormai si occupa solamente di favorire l’avanzare di multinazionali e finanza internazionale. Le emozioni sono un rischio per un giovane uomo e una giovane donna che si rendono conto di quanto sia difficile nelle attuali condizioni costruire una famiglia e un progetto di vita in questa società malata. Le emozioni sono un rischio, ma sono inevitabili, sono parte della nostra natura di uomini e allora meglio dedicarle al calcio, dove, male che vada, avremo perso una finale, piuttosto che alla vita, in cui potremmo accorgerci di stare perdendo tutto.
Camminando per le strade di Milano e vedendo giovani intonare cori, anche io ho avuto la tentazione di emozionarmi per la finale dell’Inter e ho immaginato undici giocatori ad Istanbul a lottare per la vittoria, ma poi ho riflettuto che quello era soltanto un inganno, un mediocre spettacolo, una fuga dalla realtà. Le nostre emozioni sono preziose e non vanno sprecate, non ora, non in un momento così importante. Allora mi sono immaginato che tutti quei ragazzi per le strade di Milano, anziché buttare via la forza delle loro emozioni per qualcosa di così insignificante, iniziassero a metterle al servizio delle battaglie politiche e spirituali dei nostri tempi. Ho immaginato tutto quel tempo e quelle energie dedicate al calcio, messe invece a disposizione della propria consapevolezza e delle lotte che i nostri tempi richiedono, contro le diseguaglianze, il controllo sociale, le guerre, contro le dipendenze, contro la corruzione, contro le crisi economiche indotte, contro la censura, contro la privatizzazione della medicina, contro la schiavitù dalla tecnologia, contro la povertà, contro lo smantellamento della cultura e delle tradizioni, contro l’alienazione dell’uomo.
Siamo nati in tempi in cui c’è così tanto di cui appassionarsi, basta scegliere di aprire gli occhi. Spetta a noi non sprecare questa occasione e poi, chissà, forse in futuro potremo anche tornare, ogni tanto, a guardare il calcio.