La potenza della parola

  • di Vanina Sartorio

(Recensione di “Il figlio perfetto”, Catherine Chidgey, Paginauno, 2019)

E’ un narratore onniscente, dalla voce infantile, di cui si scoprirà l’identità solo alla fine del romanzo, a introdurre i due protagonisti, Sieglinde ed Erich e la vita che conducono con le loro famiglie a partire dal 1939 in Germania.

La prima, medio borghese, vive a Berlino e segue pedissequamente e ossessivamente le direttive del Reich, sostenuta da un’incrollabile fiducia nel Fürer e alimentata da una non sempre inconsapevole ottusità. La seconda famiglia, contadina, vive in campagna, vicino Lipsia con Papa e Mama che venerano la testa bronzea di Hitler poggiata sulla credenza come fosse un idolo, con tanto di offerte votive, e crescono Erich all’ombra di un terribile segreto.

Ma la vera protagonista di questo romanzo scritto con poetica ironia, è la parola; la sua potenza in relazione alla memoria e alla storia (passata e futura).

Il padre di Sieglinde ha l’incarico governativo di asportare le “parole pericolose” dai testi e bruciarle; parole come “speranza”, “amore”, “pietà”, “ricordo”, “perdita”. Semplici segni che Vati individua a colpo d’occhio e che, asportati col bisturi, lasciano pochi spazi bianchi tra il chiaro scuro delle pagine; man mano che la guerra avanza e l’inevitabile sconfitta si profila all’orizzonte, però, il bacino di parole autorizzate si riduce al punto che le pagine revisionate si sgretolano al tocco.

Così la rimozione, la manipolazione della realtà attraverso la parola, diventa la chiave di tutta la narrazione, lo strumento per comprendere come avviene la metamorfosi che vede il passaggio da un’ideologia razionalmente inconcepibile a una (che attraverso la propaganda viene ruminata, decomposta, parzialmente assimilata e poi sputata), vendibile, non solo come legittima, ma come l’unica possibile.

Parole rimosse dunque, il cui senso viene piegato al fine di cambiarne l’accettazione, parole costruite appositamente per plasmare i punti di vista, parole censurate, omesse, distorte. E infine, parole usate come arma, la più importante, quella che genera l’accusa del vicino al vicino, del fratello al fratello.

Ogni personaggio è sottilmente costruito come rappresentante della variazione sul tema.

Il bambino narratore ad esempio contribuisce a descrivere con le parole dell’innocenza una realtà costellata di pratiche atroci, così da rendere quasi udibile lo stridere del punto di vista infantile e puro, con quello oggettivo e pieno di contraddizioni.

“Questi sono tempi di finzione. I panettieri riempiono il pane con l’amido di patata e le donne si dipingono le cuciture delle calze lungo i polpacci. Ci sono gioielli di colla, uova surrogate, ostriche fasulle; medichiamo i feriti con erbe essiccate; gli diciamo che il latte di cocco è plasma e loro offrono le vene all’ago. (…) Questo caffé non è caffé e questa seta non è seta; questo coraggio non è coraggio e questo amore non è amore e quel miele non arriva dalle api.”

E nel momento stesso in cui Catherine Chidgey ci mostra il processo di costruzione di una propaganda volta a imbastire l’immagine della nazione perfetta, del popolo perfetto, della razza perfetta con figli che possono esistere solo se perfetti, questa si sgonfia, perde di forza, scompare come in una magia che rivela il suo trucco, ridefinendo all’improvviso ciò in cui crediamo e abbiamo creduto.

Tutto nella società in cui vivono Sieglinde ed Erich è funzionale allo scrupoloso mantenimento di una fittizia normalità, una patina collosa che riveste la superficie.

In modo diverso, con genitori e abitudini diverse i due bambini vivono quello stesso indottrinamento, a casa, come a scuola o agli incontri della Gioventù Hitleriana. Ogni traccia di spontaneità deve essere eliminata, ogni parola sussurrata, ogni verità imbarazzante occultata. Come la propaganda serve a dare una forma accettabile al potere, così la famiglia di Erich, costruisce falsi ricordi nella mente del figlio per dare una forma accettabile al passato.

Il romanzo dunque mette in luce le contraddizioni interne a un codice di comportamento che si ammanta di virtù, ma che si regge sull’ipocrisia e sull’autoconvincimento a chiudere gli occhi, sulla negazione dell’ovvio, la demonizzazione del nemico (gli inglesi), sull’ignorare e vietare l’ascolto di qualsiasi versione contrasti con quella ufficiale (le etichette sulle radio tedesche che ricordano che è vietato provare a intercettare le trasmissioni del nemico), la cui necessità è presentata all’auditorium come un fatto incontrovertibile.

Per mettere in risalto tutti questi aspetti l’autrice si avvale spesso di ironia e umorismo, mettendo in ridicolo ad esempio il sospetto che tutto ciò che non sia perfetto (nel decoro, nel comportamento, nell’aspetto), non possa essere tedesco. Maestre di questo codice comportamentale sono Frau Miller e Frau Müller e non a caso sembrano interscambiabili (non solo nel nome). Le loro conversazioni, al limite del surreale, sono esasperazioni del pensiero nazionalsocialista e del meccanismo con cui la propaganda si insinua nel ragionamento, ma anche indizi di come sia fragile questa costruzione, di come le crepe a un certo punto, non possano essere più ignorate.

La potenza della parola infatti non ha bandiere e può essere usata anche per combattere la propaganda sul suo stesso piano, come ci mostra l’autrice impiegando diversi escamotage linguistici e narrativi; la parola ebrei ad esempio non viene mai usata in tutto il romanzo, per quanto i riferimenti siano ovvi, così che è la sua stessa omissione a renderla assordante.

Altro espediente narrativo è l’interpunzione nel testo di frasi celebri di Hitler o degli alti esponenti del partito nazista, messe in bocca ai personaggi, sottolineando come il pensiero vittima di propaganda non sia più in grado di lavorare in modo autonomo, ma solo di riprodurre acriticamente concetti e opinioni provenienti dall’alto, assumendo i connotati della fede religiosa.

La guerra dunque si combatte su due fronti, quello reale e quello linguistico, ma alla fine, in seguito allo sfacelo che sempre confonde vincitori e vinti, solo la memoria, la sua salvaguardia, potrà condurre sull’unica strada per il superamento del conflitto: la comprensione.

Ed è così che all’inizio e alla fine del romanzo si vede una Sieglinde adulta lavorare agli archivi della STASI per recuperare i documenti che l’organizzazione non era riuscita a distruggere completamente, frammenti di un immenso puzzle al quale ancora oggi difficilmente crediamo.

È il suo antidoto alla propaganda e al revisionismo storico, il suo risarcimento alla società per l’operato del padre, il suo modo anche di ritrovare ciò e chi forse non è andato perduto del tutto.

Lascia un commento