La notizia del tentativo da parte dell’università Bicocca lo scorso marzo di bloccare il corso che lo scrittore Paolo Nori avrebbe dovuto tenere su Fëdor Michajlovič Dostoevskij, mi ha richiamato alla memoria il primo articolo che scrissi diciannove anni fa.
Si intitolava “Ghemme, la città scritta. La trama della storia”, pubblicato dalla rivista universitaria di teoria e storia del restauro ‘ANANKE.
Ghemme, in Piemonte, aveva una peculiarità: molti dei muri del suo centro storico erano ricoperti da scritte, stratificatesi nel corso dei secoli e mai cancellate; insegne di antiche e nuove botteghe, corredate da decori, indicazioni stradali, dipinti di Madonne o semplici messaggi d’amore e d’odio si sovrapponevano andando a costituire una curiosa testimonianza della vita quotidiana della città.
Quella che abitualmente si definirebbe incuria e mancanza di manutenzione, aveva in quel luogo assunto il valore di un prezioso palinsesto di storia minore, un documento attestante le abitudini e i sentimenti della gente comune che normalmente non trova molto spazio nei libri di storia.
L’Italia è stata portatrice, a partire dagli anni ’70, con i suoi illustri teorici della teoria della conservazione architettonica, di valori di tutela e rispetto del patrimonio storico tutto, non solo circoscritto a quello di riconosciuto valore artistico. Allargando l’interesse anche a quello cosiddetto minore, tutte le manifestazioni culturali umane, applicate alla materia, devono essere considerate per il loro pregio documentale e la loro salvaguardia non deve lasciarsi tentare dall’arrogante desiderio di riportarle a presunte forme originarie, emarginandole dal presente o dall’eliminazione delle stratificazioni storiche in base a giudizi di valore arbitrari.
Ghemme era dunque un caso esemplare che dimostrava come qualsiasi gesto documentale umano, anche se spontaneo e privo di una riconosciuta abilità artistica, porti con sé il valore della memoria e come possa essere riconosciuto e conservato senza che per questo si perda il tanto decantato “decoro urbano”.
Apprendere che la cosiddetta “cancel culture” che da anni fa parlare di sé (fluidificandosi in accezioni sempre nuove) soprattutto nei paesi anglosassoni, stesse approfittando delle fessure di una russofobia mistificata ad arte dai nostri principali media, per insinuarsi quasi di nascosto, travestita da altro, nella nostra realtà, mi ha fatto ripensare a Ghemme.
La sua immagine ha assunto il ruolo di un baluardo, un argine mentale che mi auguro appartenga ancora alla cultura italica fungendo da protezione a questa foga revisionista e scellerata che, nel sovrapporsi e intrecciarsi con il dilagare del “politicamente corretto”, rischia di creare sempre meno indignazione e infine rassegnazione e accettazione.
Le proteste insorte in seguito alla “vicenda Dostoevskij” hanno infatti ottenuto un ravvedimento da parte della rettrice dell’università milanese. Al contempo però si moltiplicano i tentativi di cancellare, oscurare, rivalutare determinati periodi o personaggi storici.
Ne vengono eliminate le testimonianze materiali, come nel caso dell’abbattimento delle statue rappresentative di valori oppressivi in più parti del mondo e immateriali, come la rilettura di certe espressioni artistiche oggi considerate offensive (i quadri di Gaugain realizzati a Tahiti sono stati più volte al centro di critiche da parte degli allestitori delle mostre inglesi che li hanno presentati al pubblico come portatori di valori coloniali). L’eliminazione dei libri di autori russi dalle biblioteche e dalle scuole ucraine, si inserisce nel medesimo meccanismo che, se non arginato, sedimenterà il concetto che il passato possa essere letto alla luce dei valori presenti e di conseguenza valutato e percepito come dannoso per gli stessi.
Ma, anche se si considerasse inutile provare a contestualizzare gli avvenimenti storici e il pensiero che li ha sostenuti, essi non incarnano comunque una tappa di un percorso che ci ha condotto fino all’oggi? Tappa senza la quale l’esito attuale probabilmente sarebbe diverso.
E se anche si valutasse tale patrimonio materiale e immateriale giudicabile con i nostri criteri morali contemporanei, non è detto che questi restino immutabili.
Infine, non è forse attraverso la dialettica costante tra principi diversi, opposti, che avviene la crescita e il progresso culturale?
Se si eliminano o si distorce il significato delle manifestazioni fattuali di quelli che oggi consideriamo errori di concetto, non sarà più facile un domani dimenticarli, con il rischio nel futuro addirittura di ripercorrerli?
La paura che muove certi istinti censori sembra essere dovuta all’idea che il passato possa “corrompere” il presente, ma questa è una contraddizione in termini. Il presente è figlio del passato, discende da esso e, come a un padre deve costantemente potersi rapportare proprio per delineare la propria indipendente identità.
Non sono forse un po’ più fragili gli uomini senza padre?
Che ne è dunque dell’importanza del rito, delle “giornate della memoria”, del mantra “per non dimenticare?”.
Sembrerebbe piuttosto l’ennesimo tentativo di una società che affoga nel suo autocompiacimento, che si considera portatrice dei più alti valori mai raggiunti dall’umanità, valori immutabili e definiti una volta per tutte, di togliere all’individuo la possibilità di formarsi un pensiero in modo autonomo, rendendolo permeabile unicamente a una visione che sia confezionata e comunicata dall’alto.
Solo eliminando o plagiando quegli elementi che possono divenire oggetto di interpretazione, il singolo potrà ricevere l’indotrinamento su ciò che è giusto o sbagliato, accetandolo con un semplice atto di fede. La storia, spogliata dalle sue testimonianze materiali, eliminate o svilite, può essere manipolata più facilmente di quanto non lo sia già.
Non sono più stata a Ghemme, non so se la “trama della storia”, se i ricami di vita sulle sue pareti siano stati conservati o se la fama del suo vino abbia richiesto come contraltare alla nuova ricchezza, un’operazione di restyling. Forse per non turbare i frequentatori delle sue rinomate cantine con un orgoglio troppo popolano si è preferito voltare pagina e avere un bel foglio bianco su cui progettare il futuro.
Per ora preferisco non saperlo e continuare a sperare che noi italiani, circondati costantemente da arte e bellezza, sapremo resistere e proteggere la nostra memoria, come uno dei beni più importanti e vitali che ancora possediamo.
Sembra allora ancora più significativo e non anacronistico concludere con la stessa citazione di diciannove anni fa: “La quasi eternità dell’arte si confonde con la quasi eternità dell’esistenza incarnata; nell’esercizio dei nostri corpi e dei nostri sensi, in quanto ci inseriscono nel mondo, abbiamo di che comprendere la nostra gesticolazione culturale in quanto ci inserisce nella storia. (…) Diciamo, più generalmente, che l’ininterrotto tentativo dell’espressione, fonda un’unica storia, – come la presa del nostro corpo su ogni oggetto possibile fonda un unico spazio. (…) scegliere la storia significa dedicarsi anima e corpo all’avvento di un uomo futuro di cui non siamo nemmeno l’abbozzo, rinunciare ad ogni giudizio sui mezzi in nome di questo avvenire, ad ogni giudizio di valore in nome dell’efficienza, rinunciare all’autoconsenso.” (Maurice Mrleau-Ponty, Segni, Milano, Il Saggiatore, 1967)