Prometeo (racconto)

  • di Vanina Sartorio

I

“Devi seguirmi” dice il gambero aleggiando nella nebbia densa ed emergendone solo con le due biglie nere degli occhi.

Alice non ne ha paura, lo ha già visto molte volte, seppure con delle varianti.

La nebbia si muove stando ferma, la avvolge, la distrae. Ma lei sa che deve rimanere concentrata, carpire ogni dettaglio per venirne a capo una volta per tutte.

“Vieni con me” ripete la voce illegale di De André prestata al gambero.

Alice fa un passo in avanti. “No!” grida lui “Non così! Devi fare come me!” Forse deve nuotare. Prova a spiccare un saltello per vedere se riesce anche lei a galleggiare, ma, nonostante sia molto più leggera che di giorno, dopo pochi secondi ritorna a terra. Prova allora a correre in avanti, anche se sa che non riuscirà a muoversi.

“Non così, te l’ho già detto!”  le piccole sfere nere che luccicano da dietro il tendaggio di goccioline.

Alice ne approfitta per saltare di nuovo,  agitando braccia e gambe più veloce che può. Si sente un delfino ammaestrato.

“Ci sei quasi. Ma per prendermi devi pescare con l’altra rete.”

Questa è nuova; non le pare lo abbia mai detto prima.

Aliceeee! (Proprio adesso.)

Aliceeee! È tardissimo!

Apre gli occhi. Si mette a sedere sul letto e dal cassetto del comodino estrae un taccuino sul quale annota il nuovo piccolo tassello del mosaico.

La porta della sua camera si spalanca e, come la chiusa di un canale che si alza, lascia scrosciare nella stanza una cascata di raccomandazioni materne.

“Ti sei ricordata di prenotare ieri sera i vestiti per oggi?”, “Non ti ridurre sempre all’ultimo che poi arrivi in ritardo.”, “E il pranzo? A che ora arriva coso, com’è che lo chiami tu? Ah, sì, Brandt.”

La porta si richiude con lo stesso impeto.

Il cuore di Alice sta ancora rullando intanto che si butta giù dal letto, anche se è sicura che sua madre non abbia notato il taccuino.

Tenerlo nel comodino è stato un errore; ha ancora qualche minuto prima dell’arrivo di Brandt per riparare. Apre il piccolo armadio che contiene solo la biancheria e sfila i cassetti interni. Dietro, nell’intercapedine tra questi e lo schienale, c’è la sua collezione di antichità: compact disc di de André, Gaber, Brassens e altri, il lettore con le cuffie, libri e riviste, una chiavetta USB che non ha mai potuto aprire, una risma di fogli bianchi, tutto  risalente a prima del Great Blackout.

Ricorda ancora il giorno in cui li aveva ritrovati nella soffitta della casa dei nonni. Poco prima dello sgombero e della demolizione, un altro sogno l’aveva spinta ad andare là, a salire in soffitta e ad aprire l’antina segreta nel muro. Quella che usava sempre da piccola per nascondersi e che tanto segreta forse non era, visto che la nonna la scopriva sempre. Per questo non si aspettava di trovarci nulla e invece era piena di roba; oggetti proibiti.

Brandt emette il solito fischio, simile a quello di una teiera, fuori dalla finestra. La sua elica le scompiglia i capelli mentre il braccio meccanico si allunga a porgerle il pacco con i vestiti e il pranzo. Una volta alleggerito dal carico, emette la ricevuta con indicati i punti residui, accompagnata da un fischio diverso. Alice agita la mano, anche se sa che lui non è un lui e che del suo saluto non sa che farsene. Si veste veloce con l’outfit n. 23 della  dresslist e infila il pranzo nello zaino, insieme al tablet e al phonefriend. Scende le scale del palazzo, fa scorrere il polso sul lettore che riconosce la sua identità digitale sbloccando la porta d’uscita.

Lia e Rachel sono già schierate nella fila di quartiere, la numero 8, e il conto alla rovescia per la partenza del pedibus ginnico è appena iniziato. Si infila al suo posto giusto in tempo per partire con gli altri e non avere sanzioni sul registro elettronico; 3,2,1, suona la sirena e parte la marcia di due chilometri che li separa dall’Anfiteatro.

“Lungo il tragitto, tutti concentrati sul respiro e sguardo sulla schiena del compagno! Farete meno fatica e ottimizzerete il consumo di grassi!” urla il capofila anche questa mattina, come fosse una novità. Poi un altro Brandt si avvicina e, costeggiando la fila, spara un laser per misurare la distanza tra i ragazzi. I bip sono brevi, tutti stanno marciando a distanza adeguata e tutti i chip corrispondono all’appello. Sono un gruppo preciso; Alice ricorda solo una volta, da che ha l’età per assistere all’Istruzione Unica, in cui Brandt avesse emesso il bip prolungato. Per questo alle premiazioni dei quartieri, prendono sempre la medaglia d’oro. La indossa anche ora, la sente tra la maglia e la pelle, anche se ha la stessa temperatura del suo corpo; si porta allora una mano al petto per premersela contro, per percepirne l’orgoglio addosso.

 

II

A metà percorso, un suono la distoglie dalla schiena del compagno di fila; è molto debole, non riesce a decifrarlo, eppure ne avverte la dissonanza con il suo quotidiano.

Come una risata fra i lamenti, le fa salire il sangue alle orecchie e le impedisce di alzare lo sguardo.

Poi arriva la percezione, prima ancora del riconoscimento, tanto che inciampa attirando l’attenzione di Brandt che le si affianca.

Certo bisogna farne di strada

Ora ha il respiro in affanno e, anche se è riuscita a non perdere la distanza, Brandt potrebbe segnalare qualcosa; come i cani sembra saper fiutare la paura.

Da una ginnastica di obbedienza

Se il phonefriend fosse acceso, le sarebbe arrivata una notifica: “sembri affaticata; fermati un secondo e respira profondamente.” O qualcosa del genere.

Cerca di inglobare aria per riportare le pulsazioni alla normalità e Brandt infatti si allontana.

Fino ad un gesto molto più umano

Lo sente in modo chiaro ora, distingue ogni parola e le sembra incredibile che lei sia l’unica, che non solo i suoi compagni, ma anche tutte le altre persone in strada non lo sentano.

Che ti dia il senso della violenza

Però bisogna farne altrettanta

per diventare così coglioni

da non riuscire più a capire

che non ci sono poteri buoni

E’ il gambero che canta; ha detto persino una parolaccia e non se ne accorgono! Che sia un’allucinazione uditiva? Sembra essere ovunque e da nessuna parte e Alice non può alzare la testa per cercarlo ora e verificare, l’Anfiteatro del Sobborgo II Nord è proprio lì di fronte.

L’ingresso mattutino è la parte della giornata che preferisce: una parata di  studenti,  tutti in file provenienti dai vari quartieri, coordinati come il flusso delle rogge che si immettono nei canali, si riuniscono in plotoni sempre più grandi e varcano il Portale esattamente al suono della campana.

È come prendere parte a una di quelle danze popolari di una volta, dove i ballerini componevano delle figure avvicinandosi, allontanandosi e prendendosi per mano; solo che all’epoca ci si poteva ancora toccare tra estranei, lo aveva visto in uno dei video nascosti dietro i cassetti dell’armadio e il risultato era di certo meno preciso e ordinato.

Ma oggi le sembra tutto sbagliato. La sua fila è più corta di quelle dei quartieri 7 e 9 che stanno per affiancarli, le gambe di Rachel si muovono a un ritmo diverso da quello di marcia e, anche se il capo fila non dice nulla, avverte il suo disappunto.

Una volta all’interno, la calda voce proibita del gambero sembra non essere mai esistita; nel prendere posto sulle gradinate del settore viola, Alice si volta verso le due amiche che siedono nella fila appena sopra la sua.

Lia sta connettendo il tablet alla colonnina elettrica; quando si accorge del suo sguardo, le sorride e annuisce. È il suo tipico gesto di approvazione, ma Alice non capisce a cosa si riferisca. Aggrotta le sopracciglia e scuote leggermente la testa. Rachel si unisce alla conversazione muta alzando gli occhi al cielo e ridendo apertamente (si era sempre chiesta come facesse a ridere senza emettere suoni).

Comincia a pensare che si siano accorte di qualcosa… Ma poi Lia si lascia scappare un: “Oh, ma sei scema! L’outfit 23 è una bomba! Non per niente te l’ho configurato io!” La tutor si fionda come un avvoltoio alle spalle di Lia. “Alunna ViolaIIIF, sai benissimo che non si può parlare una volta entrati nell’Anfiteatro” sibila “indossa immediatamente la mascherina, così che tutti ti vedano e apprendano dai tuoi errori”.

Lia sbuffa vistosamente, indossa la museruola come la chiama  lei, e le fa l’occhiolino. Tra una settimana sarà il suo compleanno e dopo dovrà stare molto più attenta a prendere tutti questi richiami. Glielo ha già detto molte volte, un conto è il registro elettronico, un conto il Certificato di Buona Condotta, ma lei sembra fregarsene. Ora infatti le sta indicando il fagotto con il pranzo, mentre mima il gesto di vomitare nella mascherina. Il giovedì c’è la zuppa di maggiolini che lei detesta. Ad Alice scappa una risata, ma per fortuna la tutor è voltata da un’altra parte.

Lia tira fuori il suo involto dallo zaino e lo scopre leggermente dal tovagliolo che lo avvolge; la scatola è diversa dalla sua, in qualche modo è riuscita a evitare i maggiolini.

Alice la guarda sgranando gli occhi, lei si abbassa la mascherina e risponde con un sorriso obliquo sillabando qualcosa che non capisce a pieno: “ac eb” forse.

La tutor ha appena terminato di controllare il settore verde dei ragazzi più piccoli e ora tornerà a occuparsi di loro per cui per il momento deve lasciare perdere.

A breve avranno due ore di lezione del Chief Instructor di inglese commerciale, due di ragioneria tenute dal Ministro dell’Economia e l’ultima ora, quella che odia di più, di informatica con il noiosissimo padre di tutti i Brandt (Big Brandt lo chiama), l’ I.A.I. (Instructor of Artificial Intelligence).

Pur di evitare l’ultima ora se ne mangerebbe un chilo di maggiolini!

 

III

Alle 8.00 in punto i grandi portali dell’Anfiteatro si chiudono, nessuno può più entrare o uscire; i dieci maxi schermi ruotano, così da far combaciare il monitor che trasmette la lezione giusta in base all’età, con il suo settore.

All’attacco dell’inno, gli studenti, i tutor e gli addetti alla sicurezza si alzano e lo ascoltano a testa china. Gli studenti migliori portano una mano alla medaglia che sono tenuti a indossare per fare da esempio agli altri.

Una volta seduti, gli alunni estraggono dallo zaino le proprie cuffie wireless e partono le lezioni. Alice questa volta esita prima di sfilare dalla custodia del tablet il suo segreto; ha cominciato a farlo da quando sono comparsi quei sogni e l’esigenza di annotarli sul taccuino.

Le prime volte per pochi minuti, via via aumentando fino a occupare quasi tutta la durata delle lezioni. Forse l’hanno scoperta e la canzone di De André è una sorta di avvertimento, forse oggi dovrebbe evitare di tirare fuori il foglio di carta e la penna.

Eppure il piacere di far scorrere l’inchiostro sul foglio, di vedere le parole prendere una forma tutta loro, diversa da quella che genererebbe il compagno accanto, unica come un’impronta digitale, è una tentazione troppo grande.

Gli appunti presi a mano poi le restano subito impressi, riesce a studiare meglio e più velocemente una volta a casa. Se la scoprissero però, altro che richiamo! Le regole di “uso della materia” e “inquinamento” sono le più importanti e, anche se ancora non ha compiuto sedici anni e la sanzione non abbasserebbe il punteggio nel CBC, probabilmente i suoi genitori ne pagherebbero le conseguenze.

Durante la pausa pranzo continua a osservare Lia che mangia tutta ricurva sul porta pranzo per non fare vedere a nessuno che, al posto dei maggiolini, nella sua zuppa galleggiano rarissimi pezzetti di carne. Alza la testa solo un momento per farle segno di assaggiarne un po’, ma Alice scuote la testa. Questa volta ha esagerato, per una cosa del genere potrebbero espellerla.

Alla fine però nessuno se ne accorge e Lia la passa liscia;  forse avrebbe potuto assaggiarla quella carne, è da mesi che non la mangia.

Alle 14.00 finiscono le lezioni e la coreografia d’entrata viene ripetuta al contrario, ma Alice non ci trova mai il senso di condivisione e appartenenza dell’andata. Dopo tutte quelle ore di cuffie e isolamento, gli sguardi sono persi nel vuoto della schiena del compagno davanti, il passo è blando, manca la risolutezza, la coralità dei respiri.

È in questa sorta di trance del rientro che nota alcuni dettagli del paesaggio che le paiono emergere luminosi dal buio.

Possibile che in tutti gli anni che ha percorso sempre la stessa strada, due volte al giorno, e anche quella stessa mattina, non abbia mai notato dei segnali così evidenti da sembrarle ora accecanti!

Eppure, adesso che ci riflette meglio, le foglie del Leccio secolare al centro della piazza l’avevano già colpita in passato; credeva che solo le conifere fossero sempreverdi e per questo era andata a informarsi riguardo la specie arborea, ma non si era mai accorta che la punta di tutte le foglie fosse orientata nella stessa direzione. Il loro verde sembra essere l’unico colore a risaltare sullo sfondo grigio delle case e delle strade. E tutte quelle freccioline  puntano, tese come fossero pronte a scoccare, il terrazzo di una casa.

Là sopra, all’interno di una voliera, un merlo indiano fischia la melodia di “Nella mia ora di libertà”. Era lui prima a cantare con la voce del gambero? Ed eccolo comparire: un ragazzo che sembra essere un coetaneo si trova sul terrazzo e guarda proprio nella sua direzione.

Ha i capelli neri ricci che si gonfiano a formare una nuvola intorno alla testa. Nessuno porta i capelli in quel modo qui, ma lei, tra i cimeli dei nonni, ha un poster di Angela Davis, anche se sono poche le informazioni che è riuscita a raccogliere su di lei e non sa bene chi sia stata.

Il ragazzo si avvicina alla voliera, ne apre la porticina con una chiave, allunga la mano e il merlo gli sale sul braccio con un salto. Lui se lo porta alla spalla, si volta e sparisce dalla visuale di Alice.

Si accorge solo in quel momento di avere seguito tutta la scena con la bocca aperta. Immediatamente si guarda attorno, ma il capofila è impegnato a riprendere qualcuno più avanti e Brandt è poco più di un contapassi.

Ormai sono quasi arrivati al punto di raccolta, deve prendere una decisione molto velocemente perché una volta a casa, con i suoi che lavorano al computer nelle altre stanze, non sarebbe riuscita a svignarsela facilmente.

 

IV

Salutati i compagni, Alice finge di accostarsi al suo portone e, quando tutti sono rientrati in casa, si dirige verso il Leccio.

Non c’è nessuno in giro a quell’ora, ma, anche se le telecamere per il riconoscimento facciale ancora per qualche mese non potranno identificarla, si sente pulsare le vene del collo.

Cerca di ricordare le volte che è uscita da sola a quell’ora per darsi un’aria sciolta, ma non ci riesce; solo con le sue amiche, per andare in posti precisi, altrimenti si sentono con il phonefriend, ognuna dalla propria camera.

Quindi non è normale che lei stia passeggiando da sola per il quartiere e, se qualcuno la fermasse, dovrebbe avere una giustificazione plausibile.

Sto andando a trovare i miei nonni (ma sono morti).

Sto andando alla vecchia casa dei miei nonni (che però non c’è più, è stata demolita per fare spazio a una nuova palazzina del Housing Equality World Program).

Ecco l’albero. È cintato da una cancellata alta che le impedisce di avvicinarsi per toccarlo, ma non si era sbagliata, le sue foglie indicano il terrazzo.

Sto andando al luogo dove sorgeva la vecchia casa dei miei nonni perché mi mancano.

Sì, questa potrebbe essere accettabile.

Intanto il phonefriend la avvisa: “Alice sei più lontana da casa del solito. Abilito la chiamata di sicurezza; in caso di pericolo, schiaccia il tasto rosso.”

Ha dimenticato che alle 14.00 si riaccende automaticamente; rimedia subito.

Il problema adesso è trovare il modo di salire sul terrazzo; il chip è abilitato per accedere solo al suo condominio e nessuno l’avrebbe fatta entrare senza una valida motivazione.

Prova a fare il giro dell’edificio in cerca di entrate secondarie, ma è blindato, come il suo e tutti quelli costruiti dal Great Blackout in poi.

Sta per citofonare a caso, sperando che qualcuno le apra anche per sbaglio, quando lo sbattere d’ali del merlo le arriva così vicino, da sentire lo spostamento d’aria sul collo.

Dalle zampe lascia cadere a terra una scheda come quelle che servivano una volta per pagare, quando ancora c’era il primitivo sistema dei soldi. Incastonato nella scheda c’è un microchip, certamente molto più grande di quello che le hanno impiantato nel polso, ma magari… lo avvicina alla porta e la serratura scatta.

Salendo le scale Alice si sente le gambe molli, forse si sta cacciando in un guaio.

Poi il gambero, la sua voce, il nero profondo degli occhi di ossidiana, la sensazione di pace che prova quando lo vede nei sogni; niente di tutto ciò può essere negativo.

Apre la porta che dà sul terrazzo, preparandosi al peggio, ma non vede nessuno di fronte a lei, solo il merlo appollaiato sulla porta della voliera aperta.

Sta borbottando qualcosa, una specie di dialogo a due voci: “Te l’ho detto che sarebbe venuta” dice con voce femminile, acuta, “Non sappiamo ancora se ci possiamo fidare” risponde De André, “Quanto la fai lunga, non vedi che è lei?”, “Non significa niente”.

Mentre fa per avvicinarsi al merlo e ascoltare meglio, una voce alle spalle le chiede: “Hei, tu, cosa ci fai qui?”

Alice risponde, prima ancora di voltarsi: “Stavo andando al luogo dove sorgeva la casa…”

“Mamma mia, come scusa, fa schifo” dice la voce ridendo.

Si volta: è lui, il ragazzo dai capelli afro; ora che lo vede da vicino, anche i suoi vestiti sono strani. Indossa dei jeans strappati sulle ginocchia e uno strano giubbotto nero con delle borchie di metallo.

“Mi sa che abbiamo da insegnarti tutto eh?”

“Chi sei? Chi mi deve insegnare cosa?”

“Adesso non c’è tempo, non posso restare a lungo, quindi conviene concentrarsi sull’essenziale, ci sarà modo più avanti di parlarne.”

“Perché, non è essenziale farmi capire cosa sta succedendo? Tu sai anche dei miei sogni? Perché il merlo parla con la voce del gambero?”

“Ok, ok, capisco che è un bel casino per te, tutti questi dubbi, tutti insieme. Però ora mi devi ascoltare e basta. Se ci scoprono, è finita. È tutto molto più complesso e ampio di quello che credi. C’è un mondo intero che non conosci e che ha bisogno di aiuto.”

Alice distoglie lo sguardo; ora ci vorrebbe la madre a svegliarla con la sua foga del mattino, qualcosa che la trascini via da lì, che la deponga nel suo morbido letto.

“Perché io? Almeno questo me lo devi!”

“Adesso non ti esaltare, non sei la prescelta o cazzate del genere, stiamo cercando tutti quelli come te, ce ne sono diversi.”

La parolaccia le ha provocato la reazione istintiva di guardarsi attorno. “Quelli come me…”

“E’ una questione di discendenza pare, per via dei tuoi nonni. Comunque, te l’ho detto che non ho tempo. Prendi” e le mette in mano un foglietto di carta.

“Entra nel dark web, accedi attraverso la VPN all’indirizzo IP. Sono entrambi scritti lì. Poi segui le istruzioni.”

Si volta verso il merlo, schiocca le dita e l’animale gli vola sul braccio. “Non venire più qui fino a quando non te lo diremo noi.”

 

V 

Quel primo sogno era stato una specie di chiamata, ora lo capisce. Erano passati molti mesi e non avendo annotato nulla, il ricordo cominciava a sbiadire, ma a ripensarci oggi, già c’erano dei tratti in comune coi sogni successivi. L’assenza di luogo, ad esempio: sua nonna, immersa nell’acqua che le sorride senza aver bisogno di respirare e la voce che proviene dall’interno delle sue stesse orecchie e le dice giochiamo a nascondino?

Sdraiata sul letto si rigira il foglietto tra le dita rimuginando quello che le ha detto il ragazzo il giorno prima sul terrazzo.

Nel sogno la nonna indossava un abito con delle foglie stampate, delle foglie di Leccio; ma lo ricordava davvero o era la sua mente a sovrapporre ricordi vissuti e ricordi sognati per prendersi gioco di lei e della sua “discendenza”?

In ogni caso dopo quel sogno, in preda alla nostalgia, era andata alla casa dei nonni e credeva che il ritrovamento degli oggetti proibiti fosse stato casuale; ora si rende conto che non ha fatto altro che seguire degli indizi fin dall’inizio, ma come un investigatore scadente, che si muove alla cieca, senza capire niente di quello che fa e dovrebbe fare.

Chissà quante informazioni preziose si è persa.

Che cosa cavolo è il dark web? Ha paura anche solo a digitarlo su Internet Plus, niente di quello che fa col megatablet può rimanere segreto, questo lo sa.

Dark web, dac ueb, ac eb… Ma certo! Alice scatta come una molla ritrovandosi seduta. Ecco cosa aveva sillabato Lia all’Istruzione Unica! Ecco dove prendeva il cibo proibito! L’altra rete, devi pescare con l’altra rete; avrebbe potuto capirlo prima se solo fosse meno stupida.

Deve assolutamente parlarne con la sua amica, farsi spiegare come accedervi, ma di certo non al phonefriend, devono parlarsi faccia a faccia.

Il giorno successivo Lia si presenta all’appuntamento con un cappello nero e occhiali da sole.

“Ma come ti sei conciata?” Alice guardandosi attorno nella via.

“Me lo hai detto tu di non dire niente a Rachel, che era una cosa delicata.”

“E questo cosa ha che vedere con il tuo abbigliamento assurdo che dà ancora di più nell’occhio?”

“Cice, non ti accorgi che non c’è mai nessuno in giro? È per le telecamere!”

“Ma se non sei ancora iscritta al CBC cosa ti importa?”

“Non si sa mai.”

“Va be’, lasciamo perdere, ti devo chiedere una cosa importante.”

“Spara.”

“La zuppa, quella di carne che avevi all’Istruzione Unica. Dove l’hai presa?”

Lia si volta fissandola a occhi sbarrati. “Ma sei matta?!” soffia “Dammi il phonefriend. Subito!” Alice lo estrae dallo zaino e glielo allunga. Lia prende anche il suo e li nasconde entrambi sotto a un cespuglio. Poi la spintona più avanti. “Se vuoi diventare una fuorilegge come me, devi farti più furba!”

“Ma era spento!”

“Non basta. Devi svegliarti. Se vuoi veramente sapere come faccio, devi anche prendere atto che se ti beccano, finisci nei casini.”

“Sì, ho capito, hai ragione.”

“E, se dovessero scoprirti, anche solo i tuoi, ovviamente non l’hai saputo da me.”

“Ricevuto.”

Lia si prende ancora qualche minuto di silenzio intanto che la spinge, più dolcemente ora, ad addentrarsi nel parco.

“E sia; mai sentito parlare del dark web?”

Alice si finge sorpresa, ma Lia è più furba, non sembra crederle. Sente di avere la faccia della madre quando apre i regali di suo padre.

“E’ come Internet Plus, ma per un sistema che non ti so spiegare, è impossibile risalire alla tua identità e al luogo da dove ti connetti.”

“Quindi sarà usato per fare cose illegali?”

“Soprattutto, ma non solo. Comprare un cibo particolare o delle scarpe che ti puoi tenere una volta tanto, senza doverle restituire tutte le sere, sono azioni vietate, ok, ma non proprio illegali. Insomma, non si va in conformatorio, si perdono solo i punti del CBC.”

Spiegata così anche la provenienza di quelle scarpe strane che le ha visto indossare la settimana prima.

“E poi si può parlare liberamente. Ci sono mail e chat in cui le persone, protette nella loro identità, si sfogano e dicono quello che pensano realmente del Central World Government.”

“Anche per questo non si va in conformatorio?”

Le due ragazze si scambiano uno sguardo rapido che si sposta subito sui piedi e il loro  scricchiolare sulla ghiaia dei vialetti.

“Comunque” riprende Alice “puoi farmi vedere come fare a entrarci?”

“Ecco, questo è più complicato… mettiamoci là, su quella panchina vicino al Leccio. Lì c’è una specie di angolo cieco, l’ho scoperto chattando su Proton.”

“Con chi hai chattato?”

Lia le rivolge uno sguardo vecchio, come se avesse vent’anni più di lei “Ecco, queste domande, sul Dark Web, non si fanno. E ora fai silenzio.”

 

VI 

E’ in camera sua, seduta alla scrivania che fissa il monitor spento del megatablet da un po’, tanto che la luce che proveniva dalla finestra alle sue spalle si è affievolita.

Dovrebbe studiare Applicazione di Intelligenza Artificiale per l’esposizione della ricerca che la aspetta lunedì, ma sa già che non riuscirebbe a concentrarsi.

Il tema che ha scelto, l’applicazione delle I.A. nei conformatori, le sembra ora più complesso di come lo ha affrontato. Prenderà un buon punteggio, ne è certa, basta esporre con chiarezza e senza errori grammaticali per ottenere un dieci.

Non ha imparato nulla di reale però su come funziona un vero conformatorio e quale sia l’impatto sui detenuti dall’uso di androidi al posto dei secondini in carne e ossa a dieci anni dall’entrata in vigore della Legge 21/2045.

Si è informata come sempre su Internet Plus, ma non è andata a visitare un conformatorio, non ha cercato di parlare con qualcuno che ci è stato, né che ci lavora.

E le informazioni che ha trovato sono, come sempre, apologie dei progressi fatti in questo campo; i numeri delle statistiche riportano un calo drastico della violenza e una riduzione dei costi di gestione. Nessun altro parametro viene preso in considerazione. Questo è quello che dovrà dire lunedì all’Anfiteatro, ma quando ha provato a ripetere a voce alta la relazione, la bocca le si è riempita di saliva acida, come se le parole stesse fossero ricoperte di limone.

Lo spostamento d’aria provocato dalla porta le dà una scossa. “Tesoro, che fai al buio?”

“Niente, pensavo alla mia ricerca.”

La madre alza la voce per farsi sentire dall’assistente vocale: “Iris! Accendi la luce.” Poi la guarda  aggrottando la fronte: “Tuo padre e io dobbiamo assentarci qualche giorno. Abbiamo il Congresso del Riciclo.”

“Ma dai? Dite sempre che quei congressi sono una noia…”

La madre distoglie lo sguardo per posarlo su una fotografia di Alice piccola appesa alla parete. È su un’altalena con un cono gelato in mano e la bocca sporca.  Sembra dimenticare per un attimo il motivo che l’ha portata lì, poi si scuote, sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio e le sorride: “E lo sono, ma il Ministro sembra ritenere importante che questa volta tuo padre partecipi e a me tocca accompagnarlo. Partiremo con il treno venerdì pomeriggio e torneremo domenica sera. Spero non ti dispiaccia rimanere da sola.”

“No, no, non ti preoccupare, ho molto da studiare in ogni caso.”

“Se preferisci, chiedo alla signora Testi di venire qui a dormire.”

“No mamma, davvero, stai tranquilla.”

“Va bene, tra poco arriverà la cena.”

“Cosa hai ordinato?”

“Stasera risotto di quinoa con germogli si soia.”

“Ma come? Mica sei allergica alla soia tu?”

“Sì, ma infatti io non lo mangio, ho un po’ di mal di stomaco. Ho conservato qualche galletta di riso dal pranzo, mangerò quelle.”

“Ok, quando sento il fischio, vi raggiungo di là.”

Uscita la madre, Alice dice a Iris di chiudere le tende, appiccica un pezzo di nastro adesivo sulla webcam e accende il megatablet. Lia le ha detto di scaricare Tor e, prima di accedere, di attivare la VPN. Sembra una normale pagina di Internet Plus; digita l’indirizzo IP scritto sul foglietto e le si apre la pagina di un sito con sfondo nero e una scritta rossa al centro: PROMETEO.

Cliccando sulla scritta si accede a una pagina simile a una chat; il cursore lampeggia nella sua vignetta vuota, non sa se deve scrivere qualcosa.

P: Eccoti arrivata.

Compare dopo qualche secondo.

A: Mi stavi aspettando?

P: Da più tempo di quello che credi.

A: Adesso mi direte che cosa volete da me?

P: Non ancora, mi dispiace. Prima dobbiamo essere sicuri di poterci fidare.

A: Ma sei il ragazzo del terrazzo?

P: Anche se è contro le regole, ti dirò almeno questo: lui è come te, lo abbiamo trovato grazie ai sogni due anni fa. Non posso dirti altro per ora su di noi.

A: Ma allora cosa devo fare?

Il fischio di Brandt alla finestra della cucina, la avvisa che deve chiudere la comunicazione.

A: Devo andare a cena. Possiamo continuare a parlare più tardi?

P: No, collegati domani a quest’ora, quando i tuoi saranno partiti. Abbiamo bisogno che tu faccia una cosa per noi.

A: Non ti chiedo come fai a saperlo, tanto ho capito che non mi risponderesti; va bene allora, a domani.

Nessuno ha aperto bocca da quando hanno iniziato a mangiare. In altre circostanze, sua madre l’avrebbe tempestata di domande sulle imminenti gare di matematica, sulle amiche, magari senza poi ascoltare le risposte. Questa sera invece entrambi i genitori sembrano trovare molto più interessante osservare ciò che hanno nel piatto; suo padre è impegnato in una spietata caccia al germoglio di soia, la madre allinea equidistanti le briciole sulla tovaglia.

In fin dei conti è meglio così.

 

VII

A: Ci sei?

P: Sempre

A: Quando potrò avere qualche spiegazione? Mi sembra di impazzire.

P: Credimi, lo so. Ma persino qui può essere pericoloso parlare di certe cose. Esistono spie che, per recuperare qualche punto, venderebbero chiunque.

A: Ma perché? È illegale quello che fate? Prima di aiutarvi, sempre che possa farlo, devo capire quanto rischio.

P: E’ giusto, ma, se segui le nostre indicazioni e non ne parli con nessuno, quello che ti chiediamo di fare non può avere grandi ripercussioni per  te o la tua famiglia. Deciderai tu poi  se continuare.

A: Mi state chiedendo di fidarmi di qualcuno che non conosco, che si trova in un posto ignoto, per fare qualcosa che non capisco. Dite solo che è importante, che vi serve aiuto. Potreste anche essere degli assassini, cosa ne so io!?

P: Vorrei darti le rassicurazioni che chiedi, ma non posso. Proprio perché è di importanza vitale, proprio perché se ci scoprissero, morirebbe della gente, persone a cui voglio bene. Invece, con il tuo aiuto e con quello degli altri come te che siamo riusciti a trovare negli anni, potremo portare a galla delle verità che sono sommerse da molto tempo.

A: Hanno a che fare con i miei nonni?

P: Sì, anche.

A: E con il Great Blackout?

P: Ti chiedo solo di fidarti dei tuoi sogni.

A: I sogni possono ingannare.

P: Solo se non li sai leggere. E poi le persone sanno ingannare molto meglio.

Si alza dalla sedia. Partiti i suoi, ha tirato fuori tutti i cimeli dei nonni dall’armadio e li ha disposti ordinati sul letto. Oggetti proibiti, per qualcuno di grande importanza, o solo roba vecchia, inutile, che occupa spazio prezioso, che inquina, che alimenta il desiderio del possesso?

Questo è ciò che insegnano all’Istruzione Unica, ma è solo la minima parte del problema: il grosso non riguarda i contenitori, ma i contenuti. Nessuno lo afferma esplicitamente, ma il messaggio che le è sempre arrivato dagli adulti è che il passato fu un disastro, che le persone che vissero prima del Great Blackout, le persone che scrissero quei libri, quelle canzoni, che dipinsero quei quadri, che parteciparono alle rivoluzioni, che  dissero di essere spinti da ideali di giustizia e uguaglianza, sono loro che  portarono il mondo sull’orlo dell’autodistruzione.

Sono loro che misero in testa alla generazione dei suoi nonni che fosse giusto anteporre ideali di libertà alla necessità di limitarla per il bene comune. È colpa loro se in seguito all’epidemia di Mnemosine Virus le persone si odiavano, se alcuni rifiutarono i trattamenti nonostante avessero curato milioni di persone, mettendo a rischio la propria salute e quella degli altri, se in seguito al Great Blackout  scoppiarono guerre civili in tutto il mondo e la popolazione ne uscì dimezzata.

E i suoi nonni? Aveva sempre avvertito, per quanto piccola, che erano diversi da tutti gli altri, in meglio, aveva creduto. Ma le cose che nascondevano, provano che non condividevano la visione ufficiale.

Lo sguardo si sofferma sul CD di Giorgio Gaber “La mia generazione ha perso” del 2001.

Si parla di valori  svaniti, di una generazione che ha lottato per ideali che si sono lentamente sgretolati. Hanno ragione allora i suoi insegnanti, i suoi genitori, il mainstream? Se lo ammette persino lui e con vent’anni di anticipo!… E allora chi ha vinto?

Nell’album c’è anche un’altra canzone che lei ha imparato ad amare.

“L’appartenenza

Non è un insieme casuale di persone

Non è il consenso a un’apparente aggregazione

L’appartenenza

È avere gli altri dentro di sé

 

L’appartenenza

È un’esigenza che si avverte a poco a poco

Si fa più forte alla presenza di un nemico

Di un obiettivo o di uno scopo”

 

E’ la generazione dei suoi genitori ad avere vinto, è scritto. Sono riusciti a costruire una nuova società dalle ceneri di quella vecchia che invece ha fallito. E in questa nuova costruzione di assetto mondiale regna l’ordine, la disciplina, il rispetto delle regole, la parità di opportunità e di benessere per la gente comune; ma l’appartenenza? L’obiettivo? Lo scopo? Scosta appena la tenda per guardare fuori. Le strade si svuotano sempre con il calare della sera e d’altra parte, una volta rientrati quei pochi che non lavorano a casa, che motivo li spingerebbe a uscire di nuovo?

Se non fosse per qualche luce a punteggiare le facciate dei palazzi, potrebbe pensare di essere l’ultima persona rimasta sulla Terra.

A: Eccomi, ci sei ancora?

P: Ci sono.

A: Ok, ditemi cosa devo fare.

P: Devi portarci una cosa. Crediamo che la abbia tu. È una chiavetta USB, si usava nei PC di una volta, ora i megatablet non hanno più l’ingresso, ma crediamo che l’avessero i tuoi nonni e sappiamo che hai messo in salvo la loro roba.

A: C’è in effetti un oggetto che dovrebbe essere quello che cercate. È l’unica cosa che ho e che non so cosa contenga.

P: Bene. Ora ascoltami con attenzione. Devi venire alla terrazza senza dirlo a nessuno e senza phonefriend. Ce l’hai ancora la card?”

A: Sì.

P: Stasera alle 22.00; ci sarà Malcolm, l’hai già conosciuto. Fai in modo di poter stare fuori tutta la notte. So di chiederti molto. Te la senti?

A: Non l’ho mai fatto prima. Non lo so.

P: Facciamo così, pensaci con calma, Malcolm sarà comunque lì. Se decidi di non venire, nessuno te ne farà una colpa. Abbiamo fretta, ma capiremo.

A: Almeno se vengo, mi direte tutto stavolta?

P: Sì.

 

VIII 

Se percorresse tutta la strada di corsa, ci fosse qualche male intenzionato, almeno non riuscirebbe a prenderla. Parte di slancio e per un po’ la paura la sprona, ma a metà strada già rallenta; cosa teme in realtà? Dall’introduzione del CBC la piccola criminalità è sparita, o almeno così le dicono. Da quando è nata in effetti non ha mai assistito a episodi pericolosi, né conosce qualcuno che ne sia stato vittima. Smette all’improvviso, non riuscirebbe comunque a fare tutto il percorso senza mai fermarsi. Riprende fiato piegata in avanti con le mani appoggiate alle ginocchia e di fronte a lei, più luminoso che mai, uno dei tabelloni che per tutto il giorno e la notte, trasmette le immagini e i nomi delle persone con credito di buona condotta pari a zero. In questo modo tutti possono riconoscere gli inconformi, sapere che non si sono comportati bene ed evitarli, isolarli, fargli la morale se si è in confidenza, fino a quando non rimedieranno ai propri errori.

Un sistema che funziona, che ha fatto ridurre negli ultimi trent’anni i comportamenti malsani come rubare, non pagare le multe, non fare la raccolta differenziata, rifiutare le vaccinazioni obbligatorie, salire sui treni senza biglietto, non indossare la mascherina quando infetti, gettare i rifiuti a terra, sprecare le risorse limitate come l’acqua, fumare, bere alcool, parlare male delle istituzioni, e tante altre infrazioni.

Con il buio, la faccia sul tabellone sembra ancora più grande; gli indirizzi non compaiono più invece da quando qualche anno prima dei bravi cittadini avevano pensato di andare sotto casa di qualcuno degli inconformi a manifestare con cartelli e cori offensivi, impedendo loro persino di uscire di casa.

Chissà se i suoi nonni erano sempre così schivi per quello… Ora forse però tutte le sue domande su di loro, otterranno risposta.

Questa volta in un attimo è dentro al palazzo; non ha più le gambe paralizzate dalla tensione, tanto da avere il tempo di notare che alcune delle porte degli appartamenti sono accostate. Si avvicina prima a una, poi a un’altra, le apre e gli appartamenti sono tutti bui e vuoti. Sembra che lì non ci abiti nessuno.

“Ti ho sentita entrare” dice una voce proveniente dalla rampa delle scale e che ormai sa riconoscere.

“Ciao, Malcolm.”

“Hai portato quello che ti hanno chiesto?”

Alice estrae dalla tasca la chiavetta USB e la mostra tenendola tra due dita “Eccola.”

Malcolm le si avvicina e porge la mano aperta; lei gliela lascia scivolare nel palmo, lui lo chiude a pugno e sorride. Ha denti bianchissimi e occhi chiari. “Grazie.”

Si volta e fa per scendere verso il piano interrato.

“Cosa faccio? Ti seguo?”

La guarda, con un piede sul gradino e le mani in tasca: “Ci hai pensato bene? Sei ancora in tempo, puoi tornare a casa e dimenticare questa storia se vuoi. Se invece vieni con me, non potrai più essere la stessa, vedrai le cose sotto una luce diversa, si creeranno conflitti dentro di te e forse anche fuori.”

“Ma almeno capirò quello che è successo ai miei nonni, capirò perché continuo a sognarli, perché la loro musica, i loro libri risuonano in me, come se li conoscessi già.”

“Forse certe cose è meglio non saperle.”

“Anche tu hai dovuto fare questa scelta? Hai avuto qualcuno che ti ha fatto lo stesso discorso due anni fa?”

“Sì.”

“E ti sei pentito della tua decisione?”

“No.”

“Allora andiamo.”

Malcolm alza le spalle e senza togliere le mani dalle tasche, si volta; una leggera increspatura delle labbra però non sfugge ad Alice che lo segue scendendo nei sotterranei.

È molto buio e il ragazzo tira fuori dallo zaino una torcia. Percorso un labirinto di corridoi sempre più stretti, arrivano a uno spazio centrale. Malcolm alza delle tavole di legno che rivestono il pavimento scoprendo una botola. La apre. “Scendi” le dice “intanto che ti faccio luce, poi aspettami che ti raggiungo. Purtroppo ho una torcia sola, queste cose non si trovano facilmente.”

Alice esegue scendendo una scaletta di legno ripida che scricchiola. Una volta giù, Malcolm la raggiunge dopo aver incastrato le assi in modo da farle richiudere da sole, una volta tiratosi la botola sopra la testa, poi la blocca con un chiavistello e lo chiude con un lucchetto.

Ora si trovano in una stanza con muri in pietra, un letto e degli scaffali che una volta dovevano avere ospitato del cibo. In un angolo un water e un lavandino separabili dal resto dell’ambiente con una tenda. Dalla parte opposta rispetto a loro una grossa porta di metallo.

“Era un bunker antiatomico. Noi lo usiamo quando dobbiamo venire dalle tue parti e poi sparire in fretta.”

Ne aveva sentito parlare, ma come una sorta di leggenda; la materia Storia, come le avevano raccontato di averla studiata i nonni, era stata abolita tempo prima per essere sostituita da Cronache, un elenco di date e fatti da imparare a memoria e che poi tutti si scordavano nell’immediato.

“So che non sai cosa sia. Quando arriveremo avrai occasione di impararlo, oltre a moltissime altre cose!” dice Malcolm mentre armeggia con  la porta che sembra quella di un caveau di banca.

Finalmente si apre e il suo cigolio si allunga in un’eco infinita; probabilmente devono entrare in una sorta di tunnel. Lui le fa segno con la testa. Lo segue e, non appena la torcia illumina intorno, Alice si scopre in un grande tubo di mattoni con un rigagnolo di acqua sporca e dei marciapiedi ai lati. Dalla puzza non è difficile intuire dove si trova.

 

IX 

“Sono le fogne” dice il ragazzo, come a leggerle nel pensiero. “Non ti preoccupare, non è un pezzo troppo lungo, poi ci colleghiamo con le vecchie metropolitane e l’aria migliora.”

Ma, a parte che le sembra di respirare in una discarica, il posto esercita un fascino ipnotico, come stesse percorrendo l’interno del guscio di una chiocciola e, alla fine, potesse arrivare al centro della terra, all’essenza del mondo.

Dopo un’ora di silenzioso cammino Malcolm si blocca. “Di qua” le dice indicando una scala a pioli che conduce a una porticina. Da lì si passa a un tunnel che si trova a una quota superiore e devia leggermente rispetto il percorso delle fogne sottostanti. Qui non c’è il rigagnolo di melma putrida, ma dei vecchi binari che corrono affiancati da muri di cemento, coperti da disegni e scritte. “Quelli si chiamano graffiti.”

Non ha mai visto niente del genere, l’unica espressione artistica consentita è digitale, non credeva si potesse dipingere sui muri. Si avvicina fino a toccare un murale che rappresenta una donna sdraiata a terra in posizione fetale, completamente avvolta da cavi elettrici, come quelli che si usavano per i vecchi PC, prima delle torrette. Questi cavi che somigliano anche a dei serpenti, la legano, la tengono prigioniera; il viso è grigio, senza vita, fatta eccezione per gli occhi, spalancati e verdi, lussureggianti di piante come in una giungla. Sopra campeggia la scritta: Welcome in the new era. Alice fa scorrere la mano sulla superficie umida e fredda del muro, percorrendo le linee del viso della ragazza. “E’ il mio preferito” dice Malcolm alle sue spalle: “E’ bellissimo, ma è anche molto triste.”

“Già.”

Prima di rimettersi in marcia, le porge una borraccia: “Hai sete?”

Alice lo guarda sollevando le sopracciglia.

“Ah già, scusa” riprende lui “a volte mi dimentico che lì nel mondo artificiale, queste cose sono assurde.”

“Che intendi?”

“Tu non te lo puoi ricordare e nemmeno io, ma c’è stata un’epoca in cui la gente poteva tranquillamente toccarsi e bere dalla stessa bottiglia persino.” Le risponde con un sorriso un po’ obliquo.

“Lo so, ma questi comportamenti non hanno portato nulla di buono, mi sembra.”

“Credi? Beh, io, da quando sono andato via di casa, ti assicuro che ho avuto ‘questi comportamenti’ un sacco di volte eppure non mi è successo niente, anzi.”

“Come, andato via di casa?”

“Sono due anni che vivo a Prometeo.”

“E i tuoi genitori?”

Malcolm si ferma di botto, tanto che Alice quasi sbatte contro la sua schiena. Lo vede stringere e allargare i pugni con le braccia stese lungo le gambe. “Scusa, non volevo essere indiscreta, lascia perdere, non rispondermi se non ti va.”

Lui distende le mani e riprende a camminare, come se non l’avesse nemmeno sentita.

“Ma anche io dovrò venire a vivere con voi?”

“Solo se lo vorrai, anche se a un certo punto, sarà inevitabile dover scegliere.”

Il pensiero la coglie impreparata; non aveva mai preso in considerazione che questa storia potesse cambiare la sua vita in maniera così radicale.

Si volta a guardare il tratto di strada percorsa; saprebbe tornare indietro da sola? La sagoma  dalla testa a cespuglio lì davanti sta per essere inghiottita dal buio. Deve prendere una decisione in fretta. Se rientrasse a casa ora, comunque li avrebbe aiutati dando loro la chiavetta, ma almeno diminuirebbe il rischio di finire nei guai e magari le passerebbe anche il senso di nausea che la tortura.

Dando le spalle a Malcolm, inizia a camminare, ma il giovane ricordo della donna del murale le sbarra la strada. Lei, che persino da legata e immobilizzata, riesce a conservare lo sguardo indomito di chi possiede ciò che ha visto. La forza intrinseca alla natura che si è fatta carne nella visione di un mondo antico, scomparso, ma ancora non perduto forse.

Fa ancora una volta marcia indietro, ricaccia giù le lacrime che le stanno per salire agli occhi e aumenta il passo per raggiungerlo.

“Ci siamo quasi, sei stanca?”

“Un po’.”

“Non ti preoccupare per il rientro, domani dovrebbero essere già tornati gli altri dall’ultima missione, per cui ti riporteranno indietro con mezzi più veloci.”

Dopo qualche minuto si ritrovano davanti a un muro. La galleria qui era stata chiusa e quella che era una delle stazioni principali  della metropolitana della vecchia città, ora è un capolinea.  Una volta era il capoluogo di provincia più vicino a casa sua. Questo prima che le metropolitane venissero chiuse, le città abbandonate e piano piano smantellate per reimpiegare i materiali da costruzione nel nuovo assetto urbanistico. Il cartello, rosso, riporta la scritta Moscova. Le dice qualcosa, forse ci abitava qualche amico dei nonni.

“Ora è il momento di salire” dice Malcolm.

Non è mai stata in città, è vietato; le hanno detto che è impossibile entrarci, che sono cintate da reti altissime con il filo spinato alla sommità, protette dai militari che fanno entrare solamente i mezzi da lavoro.

Devono scalare delle barricate di legno che sbarrano le uscite, ma Malcolm si muove sicuro, conosce tutti gli appigli e i pertugi.

Tra le assi inchiodate si intravede il cielo all’esterno, terso e carico di stelle; l’aria sembra molto più leggera là fuori.

Superata la barriera, Alice espelle gli ultimi brandelli di indecisione con un sonoro sospiro e percorre la scala quasi di corsa.

Ciò che vede le toglie il fiato.

 

X 

Palazzi antichi e moderni, con portali decorati o tutti di vetro, qualcuno in parte distrutto e ricoperto dai rampicanti, qualcuno con puntelli di legno a evitare che i cornicioni o i balconi crollino a terra, quasi tutti senza finestre;  facce dagli occhi vuoti. E poi viali intrecciati di alberi cresciuti senza più un freno, con le radici emerse dal terreno a sollevare l’ormai inutile asfalto.

“Una volta abitavamo qui vicino con la mia famiglia, ma ero troppo piccolo, non ricordo più niente.”

“Quanti anni hai?”

“Diciotto.”

“Quindi due anni fa, quando ti sei unito a questo gruppo, Prometeo, avevi già sedici anni?”

“Sì.”

“E come hai fatto a scappare? Con il CBC e le telecamere a riconoscimento facciale…”

“Diciamo che nel mio caso la fuga è stata un po’ rocambolesca. Mi sono venuti letteralmente a salvare, altrimenti sarei finito al conformatorio.”

Malcolm la tira per un braccio “Vieni, cammina rasente ai muri. Qui non ci sono telecamere, né militari di solito, ma i droni controllano dall’alto.”

“E poi? Dove sei cresciuto quando vi siete trasferiti da qui?”

“Nel sobborgo I ovest per un po’, poi in continuo movimento.”

“Perché? Non trovavate un posto che vi piacesse?”

“No, il sobborgo I ovest non era male.” La guarda dritto negli occhi e l’azzurro si incupisce, diventa quasi blu, tanto che lei arretra di un passo: “E’ che mia madre a un certo punto è rimasta incinta e si è rifiutata di abortire.”

Alice apre la bocca per parlare; non esce nulla. Boccheggia per un attimo, ma lui le viene in soccorso: “Non ti preoccupare, è stato tanto tempo fa.”

Per tutto il tratto di strada rimanente non riesce a pensare ad altro che a due adulti, di cui una col pancione, che con un bambino piccolo per mano scappano nel disperato tentativo di nascondersi. La paura di essere traditi e scoperti, di essere costretti a rinunciare alla piccola vita che gonfia sempre più il grembo materno ogni giorno che passa, nonostante tutto.

Arrivano a una grande piazza con una cattedrale di marmo bianco di cui è rimasta in piedi solamente la facciata. Tra i video dei nonni aveva visto anche una Messa; le era sembrata una cosa incredibile che tutta quella gente credesse, tutta insieme, alle medesime cose e ripetesse ogni domenica gli stessi rituali. Poi sapeva che in altri luoghi, altre persone, seguivano riti diversi, ma dopo il Great Blackout, dopo aver visto vicini di casa, amici e parenti massacrarsi tra loro, l’idea di qualsiasi dio doveva essere stata troppo assurda per sopravvivere con le stesse modalità di prima.

Nonostante il buio, la luna riesce a estendere i suoi raggi sulle bianche guglie slanciate rivestendole come una ragnatela di luce.

E poi alla sua sinistra lo vede: un bagliore rossastro, assai diverso dall’immobile velo lunare, in movimento. Proviene dall’interno di un’imponente galleria di vetro con uno spazio coperto centrale tra le rovine di edifici che una volta dovevano essere stati molto ricchi.

“E’ proprio dove stiamo andando” dice Malcolm seguendo la direzione del suo sguardo. “Lì ci raduniamo la sera; è l’unico spazio abbastanza grande da contenerci tutti e che ci consente di accendere il fuoco senza essere visti dall’alto.”

A tendere bene le orecchie in effetti si sente un brusio provenire dalla galleria, un suono che Alice non ha mai sentito, come il ronzare delle api in un alveare.

Avvicinandosi il rumore aumenta di volume, ma rimanendo sempre collettivo, senza che si  riesca a isolare qualche voce dalle altre.

Quando si affaccia a uno dei quattro accessi della galleria, non riesce a credere ai propri occhi: gente, tantissima gente ovunque, centinaia di persone sedute a terra, radunate in piccoli gruppi, in cerchio, a coppie. Tutti stanno parlando, ridendo fra loro, si scambiano cose da mangiare, coperte, cappelli, sciarpe. Una donna in un angolo, con un gonnellone colorato, lungo a balze, suona una chitarra,  cantando.

Altri più distanti percuotono cassette della frutta e suonano armoniche a bocca.

Al centro, un fuoco.

Ogni tanto qualcuno si allontana dal proprio gruppetto, si avvicina alle fiamme, si scalda le mani e poi torna al suo posto. Lì dentro in effetti fa molto meno freddo che fuori. Un capannello attira la sua attenzione: sono due adulti, due anziani e quattro bambini, distanti d’età uno dall’altro di un paio d’anni al massimo a giudicare dall’altezza. Si somigliano, sono sicuramente fratelli; d’istinto si volta verso il suo compagno.

“Finalmente siete arrivati” dice una voce di uomo alla sua destra. Si sta rivolgendo a Malcolm. “Bentornato” gli dice abbracciandolo. Il ragazzo si scioglie dall’abbraccio e la indica. L’uomo non appena la scorge allarga la bocca nel sorriso più grande che Alice abbia mai visto.

 

XI

“Benvenuta a Prometeo, io sono Giovanni, ci siamo scritti via chat.”

Per un attimo Alice sembra non aver sentito, è imbambolata a guardare due ragazzi appoggiati alla vetrina di quello che doveva essere stato un negozio e si stanno baciando. Malcolm e Giovanni scoppiano a ridere vedendo che le guance le sono diventate viola. Si scusa e si presenta facendo un piccolo inchino, ma l’uomo le prende la mano e gliela scuote vigorosamente: “Qua si usa così.” Poi la attira a sé e le stampa due baci, prima su una, poi sull’altra guancia.

La mano dell’uomo è grande e rugosa, con dei calli all’attaccatura delle dita, ma allo stesso tempo calda e accogliente; la sensazione non è disgustosa come aveva sempre creduto.

“Avete fame?”

Alice annuisce. “Bene, seguitemi.”

Giovanni li guida in un punto abbastanza vicino al fuoco dove in un bidone di metallo arde una brace su cui è poggiata una pentola di pasta al sugo. Il profumo del basilico si diffonde tutto intorno. All’improvviso le si visualizzano davanti i pomeriggi in giardino, sull’altalena dei nonni con … altri bambini? Sì, c’erano altri bambini con lei, lo aveva scordato. Ma chi erano?

Malcolm le tocca un braccio: “Tutto bene?”

Le sta indicando col dito una cassetta di legno su cui sono impilati dei piatti; le persone ne prendono uno e si mettono in coda. Una signora poi li riempie con generose mestolate.

Avuta la sua porzione, Alice con il piatto in mano segue Malcolm per dirigersi verso un gruppo di ragazzi e ragazze che stanno già mangiando. Saluta tutti per nome, si siede a terra e le fa segno di fare altrettanto. Alcuni hanno nomi particolari: Vera, Ernesto, Berbardine, Genoveva, altri nomi comuni come Paolo, Barbara, Peppino.  I ragazzi la investono subito di attenzioni: “Sei tu Alice?”, “Tu sei la nuova sognatrice?”, “Resterai con noi?”, “Poi ci racconti com’è il mondo là fuori?”, “Io sono due anni che non ci vado!”, “Quanti anni hai?”, “Da dove vieni?”

Lei non fa altro che sbattere gli occhi voltandosi a destra e sinistra in direzione delle domande, ma sembra non comprenderne le parole.

“Oh, la lasciate mangiare almeno?!” dice Malcolm azzittendo tutti.

I ragazzi si scusano ridendo e Alice può finalmente concentrarsi sul cibo. È un sapore diverso da quello  standardizzato, ripetibile e immutabile a cui è abituata; anche se gli ingredienti sono semplici, la loro combinazione diventa complessa, ogni boccone è unico,  come una frase di poche parole che cambia significato a seconda di come si compongono.

Finita la cena Giovanni si porta al centro della galleria, accanto al grande focolare; fa un cenno e subito gli si affiancano due donne, anche loro abbastanza anziane come lui. Alice non saprebbe dire quanti anni dimostrano, non è abituata a vedere persone dai capelli grigi.

Tutti gli altri si siedono per terra a gambe incrociate con lo sguardo rivolto ai tre.

“La storia di oggi è quella di Louise e Théofile, due dei più importanti combattenti della nostra causa, due nostri vecchi amici che purtroppo da dieci anni non ci sono più. Questa sera abbiamo con noi la nipote, Alice.”

Tutti si voltano a guardarla.

Lei risponde con un sorriso dritto, sussurrando a Malcolm: “Ma i miei nonni non si chiamavano così.”

“Sono i nomi di battaglia. Quando si entra nel  gruppo, si prende uno pseudonimo; se deciderai di unirti a noi, dovrai farlo anche tu.”

“Quindi non ti chiami veramente Malcolm?”

Lui non risponde, si volta semplicemente ad ascoltare Giovanni.

Con l’aiuto delle due donne al suo fianco racconta del coraggio dimostrato in molte circostanze da Louise e Théofile, delle manifestazioni di piazza organizzate negli anni Venti contro la narrazione propagandistica dell’epidemia di Mnemosine Virus, degli scontri con la polizia, del tentativo di costruire una società autonoma rispetto quella più ampia, ma che si era dimostrata ormai soltanto vessatoria, delle persecuzioni subite da tutti loro, del Great Blackout.

Alice ascolta a bocca aperta; nessuno le aveva mai raccontato niente di tutto questo, sempre e solo accenni vaghi a come le persone vivevano prima del GB.

La catastrofe invece la conosceva nei dettagli. Una terribile guerra tra oriente e occidente per l’energia e i conseguenti sei mesi senza elettricità, riscaldamento, telefono, internet. Follia tra la gente, assalti ai supermercati, degenerazione collettiva; biblioteche, fabbriche, case occupate con la forza per rubare mobili,  libri e vestiti da bruciare per scaldarsi, cuocere il cibo o semplicemente per disperazione.

Tutto ciò si andava a sommare a due anni di un virus assurdo che colpiva il cervello delle persone provocando ictus, emorragie, perdita di memoria.

In sei mesi quindi la civiltà umana era stata completamente azzerata e l’imbarbarimento raggiunto in così poco tempo aveva spinto i governanti di tutto il mondo ad accordarsi su una nuova gestione, una visione alternativa in cui le risorse venissero condivise equamente tra tutti gli stati. Così le avevano detto a scuola, così le avevano confermato i genitori; e senza più libri, senza la memoria umana e di internet, il passato era svanito e i pochi anziani superstiti e rimasti sani, avevano dovuto riscriverlo.

Ma cosa aveva portato a tutto ciò? Questo mai nessuno glielo aveva spiegato, eppure non era forse l’unica cosa che importava sapere?

Era un modo di vivere sbagliato se le conseguenze si erano rivelate così disastrose, se la metà della popolazione era morta trucidata. Non serve sapere niente di più.

Eppure ciò che raccontano queste persone è una memoria diversa, più articolata, una memoria che tenta di dare delle risposte a tutte quelle domande che nemmeno lei sapeva di avere nella testa.

“Eravamo la netta minoranza, avevamo contro non solo il Governo coi suoi aperti proclami discriminatori, ma anche la gente comune, il vicino di casa, il fratello, l’amico d’infanzia, convinti del fatto che fossimo noi il nemico.” Sta dicendo quella che si è presentata come  Silvia. “Eppure sapevamo di essere nel giusto, lo sentivamo radicato nel nostro nucleo umano. Perché tutto quello che arrivava dall’altra parte, invece, lo negava.”

Oppure la stanno ingannando. Sono una manica di pazzi che tenta di metterla contro i  genitori, per spingerla ad abbandonare la sua vita e unirsi a loro, per convincerla che il suo mondo è sbagliato. Un teatrino imbastito per convincerla a combattere contro una società che, tutto sommato, a lei piace. È pacifica, sicura, pulita e ordinata. Mentre qui tutto è diverso, difficile, pieno di odori e precarietà.

 

XII

Terminata la cena e i racconti attorno al fuoco, la gente comincia ad alzarsi, a raccogliere le proprie cose e ad allontanarsi a gruppetti.

“Dove vanno?” chiede a Malcolm.

“A casa.”

“Nei bunker?”

“Non solo. Una delle nostre regole è continuare a spostarci. Il governo sa che esistiamo e ogni tanto manda delle squadre dell’esercito a cercarci qui, come anche in molte altre città. Ma solo alcuni sono schedati e ricercati, quelli che sono sopravvissuti al Great Blackout; noi che siamo nati dopo, siamo semplicemente scomparsi per il tuo mondo. Quindi è una ricerca alla cieca, non sanno nemmeno quanti siamo e cosa facciamo esattamente.”

“Immagino, dal momento che nemmeno io ho ancora capito cosa fate.”

“Quello che hai visto. Stiamo insieme, raccontiamo storie e impariamo gli uni dagli altri. Alimentiamo il fuoco della memoria.”

“Ma questa è una cosa che sarebbe utile a tutti, anche al mio mondo, come lo chiami tu. Perché nascondersi?”

Malcolm la guarda alzando le sopracciglia: “Ci credi davvero?”

Alice distoglie lo sguardo. Non fa così schifo la società in cui vive. Non ci sono differenze sociali tra il popolo ad esempio. Tranne la classe politica e qualche centinaio di persone molto ricche che partecipano alle decisioni importanti, gli altri sono tutti uguali; hanno tutti la stessa metratura di appartamento, hanno tutti a disposizione il cibo e i vestiti di cui hanno bisogno, lavorano tutti lo stesso numero di ore e i punti a disposizione variano di poco in base alle responsabilità lavorative. È quasi impossibile rubare e avvantaggiarsi sugli altri.

Se parlasse di Prometeo coi suoi genitori è certa che farebbero in modo di ascoltare queste persone e  trovare loro una nuova collocazione nella società, una casa, un’occupazione. Suo padre conosce il Ministro dell’Ecologia personalmente, lavora per lui.

Ha sbagliato a venire qui. Questa gente crede di essere perseguitata, quando sta solo giocando a guardia e ladri in aree pericolose e per questo vietate.

Si guarda intorno per capire se la stanno osservando, se può tornare a casa subito.

I ragazzi che l’avevano tempestata di domande si stanno muovendo e la salutano alzando un braccio: “A domani!”, “Ciao”, “Buona notte.” Sembrano dispiaciuti per non aver avuto l’occasione di parlare con lei e forse sospettano che mai ci sarà.

E adesso?

Giovanni le si avvicina: “Spero il racconto ti abbia interessata. Ci sarebbero ancora così tante cose da dire sui tuoi nonni! Ma non si può fare tutto in una volta.”

“Ora quindi mi riportate a casa?”

“No, ora andiamo a dormire, domani visioneremo la chiavetta USB che ci hai dato. Non ti interessa sapere quello che c’è dentro?”

Alice sospira. “Ok.”

“Stanotte, visto che hai già fatto molta strada, ci siamo organizzati per dormire qui vicino.”

Entrano in uno dei palazzi della galleria. È stato bruciato e lo scheletro della struttura è l’unica parte sopravvissuta; anche la copertura non c’è più, sono rimasti solo sporadici brandelli dell’orditura in legno tra i quali il cielo stellato sembra cercare di penetrare.

“Sarebbe bello dormire qui, sotto le stelle” dice Giovanni “ma i droni volano anche di notte purtroppo.”

Alice non ne ha visto nemmeno uno da che è emersa dalla metropolitana.

Scendono una rampa di scale che doveva condurre al magazzino dell’antico negozio e davanti a loro si apre un grande spazio in cui si sono già sistemate diverse persone con i loro materassi da campeggio stesi a terra. Giovanni gliene indica uno ancora libero e già pronto con un cuscino e un sacco a pelo. Malcolm invece tira fuori da un mucchio uno zaino dal quale estrae il suo materassino e comincia a gonfiarlo.

“Prendi” dice Giovanni, allungandole degli indumenti appallottolati. “E’ un pigiama. Attenta che dentro c’è anche uno spazzolino. Là in fondo c’è il bagno.”

Quando Alice torna al suo letto con il pigiama indosso, Giovanni non c’è più e Malcolm è già avvolto nel suo sacco a pelo e le dà le spalle.

Anche lei si infila a letto e si tira le coperte fin sotto il naso. Un odore familiare la investe: lenzuola bianche stese in giardino che si gonfiano nel vento. Nel suo mondo, come lo chiama Malcolm, i detersivi, i saponi, gli shampoo, gli ammorbidenti non hanno più profumo, è stato vietato, era un costo inutile e quindi uno spreco. Loro probabilmente usano vecchi avanzi di magazzino.

Con gli occhi chiusi, riesce ancora a visualizzare i puntini baluginanti delle stelle come glieli avessero marchiati nel risvolto interno delle palpebre.

“Dormi?” chiede Malcolm sotto voce.

“No.”

“Alla fine è morta.”

“Chi?”

“Mia madre. Al nono mese ci hanno presi, lei l’hanno portata in un ospedale per farla abortire.”

“Oh mio dio, al nono mese?”

“Già, la legge è legge giusto? Non è questo che vi insegnano alla… come si chiama? Istruzione Unica?”

Alice dopo qualche minuto di silenzio: “Mi dispiace molto.”

“Semplicemente quando si è svegliata la pancia non c’era più e quando è tornata con me e mio padre, non c’era più nemmeno lei.”

“Non è mai riuscita a superare la cosa?”

“Ci ha provato, ma quando ha scoperto che era stato mio padre a farci prendere, si è buttata con la macchina in un lago. E io sono scappato. Se non mi avesse trovato Giovanni, sarei finito al conformatorio.”

“Perché?”

“Magari la prossima volta. È una cosa di cui non vado fiero. Piuttosto, che te ne pare di tutto questo? Mi sembri delusa.”

“Non lo so, pensavo avrei fatto chiarezza venendo qui, invece sono ancora più confusa di prima.”

“Vedrai che piano piano la nebbia si diraderà.”

Già, la nebbia.

“Non mi avete ancora detto nulla riguardo i sogni!”

“Lo so, sembra la cosa più importante da capire, invece non lo è. Comunque non lo sa nessuno con esattezza. È solo una teoria.”

“Dimmela lo stesso.”

“Mai sentito parlare di Jung?”

“No.”

“E’ stato uno dei maestri della psicanalisi, un po’ più giovane di Freud. Beh, lui ha scritto moltissimo su tanti argomenti diversi, un vero genio; ha portato lo studio sulla psiche molto in profondità. Una delle sue teorie è l’idea che esista un inconscio collettivo. Ci sei?”

“Certo, vai avanti, non sono mica una bambina che si addormenta all’improvviso!”

“Ok, non ti arrabbiare! Beh, insomma, Jung sosteneva che, oltre alla parte inconscia individuale che ognuno possiede, esista anche una sorta di contenitore psichico universale,  comune a  tutti gli esseri umani.”

“Dove sarebbe?”

“Sempre nell’inconscio, intessuto con quello individuale. Questo racchiude gli archetipi, cioè le forme o i simboli che si manifestano in tutti i popoli di tutte le culture. Quindi noi attingiamo a queste figure cariche di significato perché antiche quanto l’essere umano e siamo anche collegati da esse, le ereditiamo nel nostro patrimonio genetico.”

“E come vengono fuori?”

“La nostra psiche le va a pescare principalmente attraverso i miti, le favole e i sogni.”

“Per questo ci tenete così tanto alla memoria del passato?”

“Certo, oltre al fatto che dal passato ci sarebbe molto da imparare a saperlo ascoltare.”

“Quindi nei miei sogni sono emersi degli archetipi che appartenevano anche ai miei nonni, alla mia famiglia?”

“Crediamo di sì, ma, come ti ho detto, sono supposizioni. Ognuno di noi ‘sognatori’ ha avuto questo tipo di esperienza, ma in modo diverso. Tu sei quella che è stata più difficile da trovare perché i tuoi genitori si sono perfettamente integrati e non hanno raccolto nulla dell’eredità di Louise e Théophile.”

“Forse perché si erano sposati un po’ contro il loro parere o qualcosa del genere. Non ho mai capito bene.”

“Non sarà facile per te tutto questo, per me è stato diverso, non avevo alternative.”

“I miei genitori sono brave persone.”

“Non ne dubito. Ma sei sicura che anche loro non vorrebbero, potendo scegliere, una vita diversa?”

Alice non sa rispondere.

Da sotto la maglia del pigiama si sfila la medaglia che ha dimenticato di lasciare a casa. Ci alita sopra e la strofina sui pantaloni per osservarla al massimo della sua lucentezza.

La tiene tra indice e pollice facendola ruotare, così che la formichina d’oro in rilievo, finisce a testa in giù.

Ama quegli insetti da sempre, ma in particolare li considera una sorta di totem da quando all’Istruzione Unica hanno fatto vedere loro un documentario sull’organizzazione del formicaio.

Ma sono molte le medaglie che si possono ottenere: lo studente coi voti migliori, ne riceve una con il simbolo dell’atomo, il più attento ai rifiuti vince la medaglia con lo stemma del riciclo, oltre a quella per gli adulti che hanno il punteggio del Certificato di Buona Condotta immacolato. È  più grande e ha un sole raffigurato sopra.

Rachel l’anno prima aveva avuto la medaglia d’argento per lo studente più silenzioso.

Mostrava un viso di profilo col dito indice davanti alla bocca ed era il premio più apprezzato all’Istruzione Unica. “I voti non sono tutto!” Diceva sempre la tutor infatti. La medaglia d’oro in quell’ambito era irraggiungibile, la vinceva sempre un ragazzo del quartiere 11 che si vociferava fosse muto.

Quando si riscuote da questi pensieri e dà la buona notte a Malcolm, lui sta già dormendo.

 

XIII

La colazione consiste in fette di pane abbrustolite sulla brace con marmellata di arance spalmata sopra.

“Dove prendete il cibo?” chiede Alice ricacciandosene in bocca un pezzo che stava scappando fuori.

“Abbiamo una rete di sostenitori che ci aiuta.”

“E’ molto rischioso per loro immagino. Perché lo fanno?”

“Perché noi siamo la resistenza e lottiamo anche per loro.”

“Ma non credi che le cose si possano cambiare anche dall’interno?”

“Ci abbiamo già provato…” Giovanni deglutisce l’ultimo boccone aiutandosi con un sorso di  caffè nero che emana un aroma intenso di casa “ed eccoci qua.”

E’ un sorriso che punge il suo, che solleva solo un poco le guance, mentre gli occhi restano all’ingiù. Ma non definirebbe Giovanni una persona triste o passiva, anzi, nonostante l’età sembra mosso da continue scosse elettriche mentre gli occhi sempre mobili registrano tutto ciò che accade.

“Andiamo?”

Camminano per una ventina di minuti, tagliando per vie secondarie. Malcolm non è con loro; al  risveglio Alice ha trovato il materasso accanto al suo già vuoto e libero dal sacco a pelo e cuscino.

“Dove sono tutti i ragazzi che ho visto ieri sera?”

“Oggi è sabato, sono in giro o stanno ancora dormendo; Malcolm è andato a organizzare il tuo rientro, ma vedrai che più tardi qualcuno ci raggiungerà.”

Giovanni entra in un edificio ancora abbastanza integro, anonimo come tutti quelli della via. Il piano terra è un grande stanzone vuoto con una logora carta da parati a rivestirne il perimetro. Lui tira fuori dalla tasca dei pantaloni una chiave, si dirige verso la parete più lontana dall’ingresso e inizia a tastarla con le dita.

Dopo un po’ sembra trovare quello che cercava: un buchino entro il quale infila la chiave. La gira facendo scattare la serratura e una porta, mimetizzata fino a quel momento dalla tappezzeria, si apre. Entrano in una stanza, grande almeno quanto quella che si lasciano alle spalle, ma alta il doppio.

La luce è fioca qui. Gli antichi lucernari a cupola del soffitto infatti sono stati ricoperti di cellophane opaco per sostituire i vetri rotti.

Ecco perché Giovanni accende una ad una le lanterne ad olio appese ai muri come un moderno lampionaio.

Le pareti sono completamente rivestite di librerie fino al soffitto e piene zeppe di volumi, alcuni dei quali sembrano molto vecchi.

Il primo pensiero è di quanti alberi fosse costata tutta quella carta, poi le lacrime che le salgono agli occhi lo lavano via; si volta un istante verso Giovanni che annuisce e lei,  spinta da quel gesto come da una folata di vento, si avvicina ai libri a passi veloci. Coi polpastrelli ne sfiora i titoli in rilievo. Osservando meglio, si accorge di quanto siano bizzarre queste librerie;  sembra incredibile che riescano a sorreggere il peso di tutti quei libri. Sono fatte di pezzi di recupero di mobili dai colori variopinti e spessori diversi: assi da ponte, gambe di tavolo, antine sbeccate, il tutto giuntato con pezzi di metallo, viti e bulloni.

Per accedere ai piani più alti ci sono delle scalette di legno che conducono a  passerelle sorrette da corde appese al soffitto.

Il risultato è un patchwork improbabile che si arrampica a fatica verso l’alto; se ne avvertono quasi i gemiti, come appartenesse a un organismo vivo, pulsante.

Giovanni la osserva a braccia conserte percorrere tutto il perimetro. Ora sorridono anche gli occhi.

Uno sbattere d’ali improvviso la fa trasalire.

“Non avere paura, è Fabrizio, lo hai già conosciuto!”.

Il merlo plana sul braccio di Giovanni. “Fabrizio, saluta Alice.”

“Ciao”, dice la voce di De André.

Alice sorride, avvicinandosi al merlo per accarezzarlo. Lui la lascia fare.

“Fabrizio è con noi da vent’anni, ha conosciuto anche lui i tuoi nonni. Magari lo avrai visto da bambina, ma forse eri troppo piccola per ricordare.

Il merlo inizia a fischiare “Redemption song”.

“Ma allora non conosce solo De André” dice Alice continuando a carezzarlo sotto il becco.

“No, no, è un vero anarchico, un juke-box di canti di libertà.”

“A N A R C H I C O” gracchia Fabrizio, questa volta con una voce diversa, femminile. Poi vola via e si posa in una nicchia tra i libri in cui è installato un vecchio giradischi.

“Ma quello è…” Alice non riesce a finire la frase, non ne aveva mai visto uno. Le librerie accanto sono piene di 33 giri. “Posso?”.

Non aspetta una risposta e si lancia a tirare fuori quanti più dischi riesce; ne osserva le copertine talmente scolorite da essere quasi illeggibili.

“Prendi pure quello che vuoi, ma per ascoltarli o leggere i libri bisogna rimanere qui, purtroppo. Portarli fuori è troppo pericoloso.”

Solo ora Alice si accorge dei cuscinoni buttati a terra e della grande scrivania in un angolo su cui è appoggiato quello che dovrebbe essere un antenato dei mega tablet.

“Ma che cos’è questo posto incredibile?” riesce finalmente a chiedere.

“E’ la nostra biblioteca e ci svolgiamo anche qualche lezione, quelle che non possiamo fare fuori.”

“Lezione? Avete degli insegnanti?”

“Non proprio. Ognuno di noi se vuole può preparare delle trattazioni sull’argomento che preferisce ed esporle agli altri. Se il tempo lo permette, questi momenti li trascorriamo nei parchi, nei boschi. Altre volte prendiamo parole a caso dal dizionario e ragioniamo insieme sul loro significato, sull’origine e l’evoluzione che il termine ha avuto nel tempo. E così facciamo anche con la matematica. La studiamo seguendo la sua costruzione nei secoli.”

“Non riesco a immaginare di fare io lezione a degli adulti.”

“Ti stupiresti dei meravigliosi dibattiti che vengono fuori. Ma lo vedrai coi tuoi occhi se vorrai.”

Alice si volta più bruscamente di quanto avrebbe voluto a osservare ancora quel luogo improbabile.

“Credevo non esistessero più libri di carta, che fossero andati tutti bruciati o distrutti. Per non parlare degli LP.”

“A quanto pare sono molte le cose che non sapete dalle vostre parti! La prossima volta ti porto alla nostra pinacoteca” dice Giovanni strizzandole un occhio.

“Ma da dove viene tutta questa roba?”

“L’abbiamo raccolta noi anziani durante il GB.”

“E come?”

“Io, i tuoi nonni, Silvia e Barbara, che hai visto ieri sera in galleria e tanti altri organizzavamo delle vere e proprie operazioni di salvataggio nei musei, nelle biblioteche, audioteche, videoteche, case private.”

“Salvataggio?in che senso?”

“Dalla Polizia della Storia. Era un corpo speciale dedicato proprio alla razzia, manipolazione, contraffazione, quando possibile, e distruzione di tutte le forme di testimonianza dell’evoluzione culturale dell’uomo.”

Lei rimette a posto i dischi e si concede ancora un attimo per contemplare la vastità del sapere che trasuda dalle pareti. Non è possibile che qualcuno ci veda del pericolo in tutto ciò, al punto da volerlo distruggere.

“Non basterebbe una vita per leggerli tutti” dice gironzolando.

“Non è questo l’importante. I libri, i dischi, i quadri della pinacoteca sono la nostra memoria di esseri umani, non sono per me o per te, non solo. E un mondo senza memoria è… beh, lo sai.”

Questo è veramente troppo. Alice sente evaporare in un istante la sensazione di benessere per far posto alla rabbia: “Ma insomma! Tu che ne sai del mio mondo? Te ne stai qui in esilio da una vita e ti permetti di giudicare come vivo io o la mia famiglia? Certo, non sarà una società perfetta, ma forse ti stai dimenticando di considerare una cosa. Non ci sono state più guerre dopo il Great Blackout.”

Ha il respiro in affanno mentre guarda Giovanni dal basso verso l’alto, con il mento infossato nel collo.

“Ti faccio vedere una cosa” le risponde  pacato, come se lei non avesse manco parlato.

Si avvicina al computer, schiaccia un grosso tasto e si siede a una poltroncina su ruote. Dalla parte opposta della scrivania ci sono altre due sedie. “Prendine una e vieni qui accanto a me.”

Lo schermo del PC è ancora nero. “Ci vuole un po’, è vecchiotto.”

Nel frattempo Giovanni prende dalla tasca la chiavetta USB che lei aveva dato a Malcolm il giorno prima. Cerca di infilarla in un buco rettangolare a lato del monitor, ma sembra fare fatica a causa di un leggero tremore delle dita. Finalmente riesce nel suo intento.  Poi con il mouse sposta il cursore sullo schermo e apre delle cartelle fino a trovare quella all’interno della chiavetta: “Archivio Olimpo”, non c’è altro.

Si volta a guardarla, ha gli occhi lucidi. “E’ questa.”

Giovanni si butta per un attimo all’indietro sullo schienale con le mani a coprirgli la faccia. Alice non capisce se sia un bene o un male.

“Tutto ok?”

“Sì, certo, benissimo” le risponde ridendo da dietro le mani, bagnate di lacrime “ho bisogno solo di un attimo.”

 

XIV

La cartella non è altro che un data-base pieno di video, articoli, fotografie, notizie prese da giornali cartacei e online. Tutto risalente a partire da un paio d’anni prima del Great Blackout, fino a comprendere i sei mesi di mancanza di energia.

Quelli relativi a quel periodo Giovanni le dice che li aprirà da solo, non sono uno spettacolo adatto a lei.

Ma il resto, dovrebbe proprio guardarlo con attenzione, dice.

Molti documenti sono studi riguardanti i trattamenti, pubblicati su riviste scientifiche che all’epoca dovevano essere prestigiose, altri sono stralci di quotidiani che ora non esistono più su carta, ma solo online;  mostrano i titoli carichi di sensazionalismo circa il numero di morti di Mnemosine Virus, corredati da fotografie di persone ricoverate  che indossano dei caschi che li isolano completamente. A fianco, le interviste dei parenti che non hanno potuto nemmeno star loro vicino in punto di morte.

E poi un’infinità di stralci di giornali locali che segnalano morti improvvise di persone trattate, giovani soprattutto, ragazzi, bambini, sportivi morti nel sonno. Migliaia di messaggi social di persone danneggiate gravemente dai trattamenti con le foto di facce gonfie, di eruzioni cutanee,  che segnalavano la perdita dell’uso delle gambe, paresi facciali, trombi agli occhi, miocarditi, pericarditi.

Un brivido le percorre la spina dorsale. Tutte queste notizie raccolte dai suoi nonni possono essere false? Tutte queste persone con le loro fotografie, con le loro storie corredate di nomi e cognomi, com’è possibile che nessuno li abbia ascoltati? Alice scorre velocemente alcune di queste brevi biografie. Molti denunciano di essere stati costretti ai trattamenti perché sotto minaccia di perdere il lavoro; in seguito alla somministrazione avevano denunciato l’insorgere di sintomi vari, alcuni già molto gravi, e il loro perdurare anche dopo molti mesi. Chi faticava anche solo a salire le scale, chi era impossibilitato comunque a lavorare, oltre alla necessità di pagarsi le cure mediche perché il consenso informato che avevano firmato prima di sottoporsi ai trattamenti, non prevedeva la possibilità di rivalersi sulle istituzioni in seguito a danni. A queste persone veniva rifiutata l’esenzione, sentendosi dire negli ospedali di essere pazze, abbandonate a loro stesse con prescrizioni di psicofarmaci. E, nonostante ciò, ancora a rischio di licenziamento perché prive di un certificato, che all’epoca si chiamava Tessera Verde, ottenibile solo attraverso guarigione o trattamento.

Tabelle e grafici, con indicate le fonti istituzionali nostrane e straniere, mostravano come tutte le misure prese, coprifuoco, mascherine all’aperto, chiusure di attività, impiego della Tessera Verde, trattamenti obbligatori, non avessero avuto alcun impatto sul blocco della diffusione della malattia, ma avessero invece contribuito a impoverire la classe media, oltre a compromettere il sistema immunitario di milioni di persone.

Tanto, troppo materiale da elaborare. Alice si sente improvvisamente esausta. Si volta a guardare uno dei cuscinoni buttati a terra.

“Riposati un attimo se vuoi. Non puoi certo leggere tutta questa roba in una volta sola!”

Lei si alza e si lascia cadere sdraiata con le braccia sugli occhi.

Giovanni va al giradischi. Il rumore della puntina sul vinile è come l’interruttore che accende un riflettore su angoli oscuri della memoria.

I suoi nonni sono in giardino che piantano le primule nell’aiuola, come ogni primavera. La nonna scava una buca, il nonno bagna appena la piantina con un piccolo annaffiatoio e la toglie dal vaso in cui è stata comprata, tenendola a testa in giù. Poi apre la terra alla base, rompendo anche qualche sottile radice bianca e la passa alla nonna che la infila nel buco e la ricopre con la terra.

La voce di Bob Dylan canta:

Come, you masters of war

You that build the big guns

You that build the death planes

You that build all the bombs

Non ci sono state più guerre dopo il Great Blackout, ma, se quello che ha solo intravisto su quella chiavetta è vero, se Prometeo è solo una costola di un’organizzazione più grande, diffusa in tutto il paese e forse in tutto il mondo, non una guerra qualsiasi potrebbe essere alle porte, ma una rivoluzione.

You that hide behind walls

You that hide behind desks

I just want you to know

I can see through your masks

E lei, quindicenne che sogna i gamberi parlanti, cosa mai può fare per fermare il dolore e la morte che ne deriverebbe? Forse ha sbagliato a far avere a Giovanni quei documenti, forse sarebbe meglio che non venissero alla luce.

You that never done nothin′

But build to destroy

You play with my world

Ma il punto è un altro. Capire chi sono i master of war, chi gioca col nostro mondo. Una pace costruita sulla menzogna é più giusta di una guerra per la verità? Alice ancora ad occhi chiusi, sente l’uomo avvicinarsi e coricarsi sul cuscinone a fianco del suo.

“Giovanni, raccontami di te. Come sei finito da questa parte?”

“Io e mia moglie eravamo molto amici dei tuoi nonni, conosco bene tua madre e ricordo  anche le liti in casa per la decisione di sposare tuo padre.”

“Io non ricordo nulla di te, mi dispiace.”

“Beh, dopo il GB, io rimasi solo e la casa dei tuoi nonni divenne il punto di ritrovo per noi dissidenti. Tuo padre tollerava già poco che passassi del tempo con loro, figuriamoci con il nostro gruppo!”

“Posso chiederti cosa è successo a tua moglie? È rimasta vittima delle rivolte?”

“No, lei e i miei due figli, sono morti prima. Se guardi lì sulla chiavetta, il file delle vittime da trattamento, troverai anche le loro foto.”

“Ma, come, tutti e tre?”

“A un certo punto hanno cominciato a morire in tanti. A un anno di distanza dall’ultimo richiamo, molte persone contraevano leucemie fulminanti, tumori strani, nuovi. Le reazioni avverse a breve termine erano state ignorate, le morti improvvise classificate in altro modo se i parenti non si impuntavano e chiedevano le autopsie, la vigilanza passiva permetteva ai governi di voltarsi dall’altra parte. Ma a quel punto in tutto il mondo cominciavano a levarsi grandi proteste perché questi morti erano stati ubbidienti, si erano sottoposti a trattamenti ripetuti come gli era stato detto di fare. Non solo, molti presentavano gli stessi sintomi del Mnemosine Virus, perdevano completamente la memoria, anche quando ormai si diceva che il virus fosse scomparso. I non trattati invece erano immuni da tutto ciò.”

“Ma i trattati erano tantissimi!”

“Sì, la maggior parte dei non trattati erano bambini e ragazzi sotto ai quindici anni. Quando le proteste cominciarono a sfiorare la rivolta di piazza e la gente stava per organizzarsi in milizie private,  arrivò la guerra, poi il Great Blackout e tutto passò in secondo piano. E le morti sospette, furono insabbiate dalle morti per le rivolte.”

“Ma come mai tua moglie e i tuoi figli erano trattati e tu no?”

“Lei ci credeva. Diceva che era un dovere morale nei confronti della società. Non sono valse a niente le mie suppliche, un giorno è uscita di casa coi nostri bambini che avevano 12 e 13 anni ed è tornata a cosa fatta.”

“Ma non ci voleva il consenso di entrambi i genitori?”

“No. Le persone contrarie ai trattamenti venivano etichettate, additate e private della maggior parte dei loro diritti.”

“Tu non credevi che fosse un dovere? Che se tutti si fossero sottoposti ai trattamenti, l’epidemia sarebbe finita prima?”

“Questi farmaci erano stati approvati in fretta e furia, senza completare le sperimentazioni, solo in virtù di un’emergenza, nata a marzo 2020, quando il virus non si conosceva e i malati  furono curati nel modo sbagliato. Ci si  rese conto ad esempio che i caschi a compressione cranica erano controproducenti, ma ormai i morti erano stati tanti, anche se non quanti sbandierati dalle tivù. Molti medici proposero delle cure precoci, domiciliari, ma vennero subito osteggiati e tacciati di stregoneria. I media non fecero altro che terrorizzare la popolazione, così, quando dopo un anno di restrizioni, gente chiusa in casa, isolata, senza mai vedere i propri cari, arrivarono i trattamenti, molti li videro come la manna dal cielo e  corsero a farseli iniettare senza nemmeno avere la certezza che fossero sicuri.”

“Come tua moglie?”

“Già, era come ipnotizzata, non riuscivo a farla ragionare in modo razionale, logico.  La verità è che quello era un virus che uccideva e toglieva la memoria perlopiù a persone sopra una certa età e con patologie pregresse. La mortalità e l’amnesia delle altre categorie era irrisoria, per non parlare dei bambini! All’inizio quindi si parlò di trattare solo i fragili e gli anziani, poi, visto che i contagi non diminuivano, cominciarono a parlare di immunità di gregge come unico modo per proteggere quelli che, anche se trattati, si ammalavano lo stesso. Ma il problema era alla base. I conteggi dei morti da Mnemosine Virus erano assurdi, venivano considerati anche tutti coloro che, a causa delle loro patologie, sarebbero morti probabilmente anche per un raffreddore, come è sempre successo in passato con le influenze. Oppure quelli che risultavano positivi, ma senza sintomi e morivano di cancro, di problemi cardiaci pregressi o addirittura di incidente stradale.”

“Ma perché questa insistenza per dei farmaci che funzionavano molto meno delle aspettative?”

“Accordi commerciali con le case farmaceutiche. Ormai i politici non erano più liberi di scegliere, non erano più i portatori delle visioni sociali ed economiche future. I grandi ricchi, loro decidevano quale direzione dovesse prendere la società e i politici non facevano altro che seguire direttive. Come ora d’altronde.”

“Non sapevo che aveste dovuto sopportare tutto questo, mi dispiace. Ma poi, dopo il Great Blackout, il mondo ha preso una nuova direzione, forse tutto quel dolore ha in qualche modo spazzato via il male.”

Giovanni le toglie una mano dagli occhi. “Alice, guardami. Non vorrei essere io quello che ti porta via le speranze, i desideri, i progetti. E in ogni caso, non credo sia possibile, per fortuna. Dovrai essere tu a trarre le tue conclusioni con i dati che ti abbiamo messo a disposizione. Vorrei darti da portare a casa la stampa di qualcuno di questi documenti, quelli più importanti e risolutivi. Questa sera ti riportiamo indietro, così avrai domani per meditare prima che rientrino i tuoi genitori.”

“Va bene.”

Il disco è finito da chissà quanto tempo e l’aria è piena solo del frusciare del vinile sul piatto.

 

XV

L’avevano avvisata che al risveglio avrebbe avuto un leggero mal di testa, le avevano dato un biglietto con scritto dove si sarebbe trovata e cosa avrebbe dovuto fare nel caso in cui si fosse sentita troppo confusa. Per cui è preparata. Nemmeno le serve aprire il foglietto che tiene accartocciato in pugno, ricorda tutto alla perfezione.

Nel bunker c’è un accendino che usa immediatamente per bruciare le prove. Il  chiavistello è senza lucchetto, come le avevano detto, per cui la botola si apre senza difficoltà. Solo la porta di metallo che conduce alle fogne è chiusa.

Fuori dal palazzo, non sa che ore siano, ma ipotizza sia mattina a giudicare dalla luce.

Decide di allungare un po’ la strada prima di rientrare a casa; lì la aspetta la lettura dei documenti che ha nello zaino, ma all’idea si sente di gelatina.

Nella mente le risuona ancora l’ultima frase di Giovanni: “In tutti questi anni non ho mai perso di vista tua madre, lo avevo promesso a Louise e Theophile prima che… prima dell’incidente insomma. Già, sapevamo di essere tutti in pericolo. Ti chiedo solo, qualunque decisione prenderai, di starle vicino in questo momento. Te ne renderai conto anche tu prima o poi che la sua vita non è così serena come credi.”

Ci sono delle ombre nella sua famiglia quindi; si tratta solo di capire di che genere e quanta oscurità riescano a gettare sulla luce. Se ne rimane qualche bagliore almeno.

Prima di organizzarsi per il misterioso rientro di cui non doveva rimanere traccia nemmeno nella sua memoria, aveva rivisto Malcolm e gli altri ragazzi. Li avevano raggiunti nella biblioteca portando chitarre, cajon, armoniche, maracas.

Era stato un momento che non avrebbe dimenticato facilmente, ne è certa, una sensazione di condivisione che non è paragonabile nemmeno alla parata del mattino di ingresso all’anfiteatro.

Conoscevano tantissima musica, cantautori, gruppi folk, rock, di prima del GB. Lei aveva passato quasi tutto il tempo a rovistare nella sua mente perché le suggerisse qualche pezzo contemporaneo da proporre, ma non trovava nulla che potesse essere eseguito con quegli strumenti poveri.

La musica “del suo mondo” è solo elettronica, riprodotta digitalmente, mai in versione acustica; anche i testi, ora che ci fa caso, parlano sempre e solo di questioni sentimentali, niente altro. Rapporti d’amore o amicizia, quasi sempre positivi; poco spazio è lasciato al dolore, nessuno alla protesta.

Era stata una scoperta per lei, più sconvolgente per non essersene mai resa conto, che per il fatto in sé.

Ascoltava i ragazzi cantare in francese “La mauvaise réputation” con una gioia e una partecipazione, come se le parole che pronunciavano si adagiassero semplicemente in un solco già formato dentro di loro.

Au village, sans prétention,

J’ai mauvaise réputation ;                                                

Qu’je m’démène ou qu’je reste coi,                   

Je pass’ pour un je-ne-sais-quoi.                               

                                                                                                     

Je ne fais pourtant de ton à personne,               

En suivant mon ch’min de petit bonhomme ;          

Mais les brav’s gens n’aiment pas que                             

L’on suive une autre route qu’eux…                  

Non, les brav’s gens n’aiment pas que                           

L’on suive une autre route qu’eux…                         

Tout le monde médit de moi,                                     

Sauf les muets, ça va de soi.[1]                         

Lei però quel binario non se l’è ancora costruito; o forse sì e conduce in direzione opposta a quella di Prometeo.

Si sente la testa come un flipper, con le facce delle persone incontrate in questi due giorni che, palline impazzite, sbattono contro le sue sinapsi attivando alla rinfusa suoni, luci, colori e sensazioni.

Forse camminando ancora un po’ riuscirà a stancarsi abbastanza da far rallentare questo turbinio; almeno una pallina alla volta!

Il maxi schermo posizionato all’imbocco della via della stazione sta trasmettendo la faccia di una signora conciata piuttosto male; il viso butterato e lo sguardo spento la fanno sembrare più vecchia di quanto molto probabilmente è. Deve essere un’accumulatrice seriale, o qualcosa del egenere, visto che il suo credito torna sempre a zero e il codice lampeggiante è quello della mancata raccolta differenziata.

Potrebbe prendere un treno, già che c’è, allontanarsi da tutto…

Lo zaino però comincia a pesarle e  si rassegna a rientrare a casa.

Sa che deve leggere il materiale prima che tornino i suoi genitori,  per poi nasconderlo dietro ai cassetti dell’armadio. Ha ancora diverse ore prima del loro rientro e si mette seduta alla scrivania, con una matita in mano, decisa a studiare seriamente i documenti in suo possesso.

Almeno questo a Giovanni lo deve.

Dopo aver letto diversi articoli, uno in particolare le sembra molto significativo, datato febbraio 2022 e scritto da un medico. Decide quindi di leggerlo da capo e fare qualche ricerca:

Il decreto legge n° 1 del 7 gennaio 2022 impone l’obbligo di trattamento a tutti i cittadini che abbiano compiuto 50 anni. Tale obbligo, sarà esteso a tutte le fasce d’età per il personale scolastico e universitario.

“Iris, cerca DL 7 gennaio 2022”

“Mi dispiace, non ho capito bene. Forse cercavi Dielle, azienda di mobili da giardino?”

“No, DL, decreto legge.”

“Mi dispiace, nessun risultato per decreto legge 7 gennaio 2022.”

Niente? La cosa comincia a incuriosirla. Prosegue nella lettura.

Evidentemente, il governo sta continuando a puntare tutta la strategia di contenimento dell’epidemia sui trattamenti, sulle restrizioni e sugli obblighi.

Tuttavia, nonostante il paese abbia trattato l’84.2% della popolazione, fino a pochi giorni fa contava una media settimanale di 180,000 casi giornalieri. Tale numero costituisce il record assoluto da inizio epidemia, quando i trattamenti contro il Mnemosine Virus non esistevano.

“Iris, cerca Mnemosine virus.”

“Mnemosine virus è una malattia infettiva, trasmissibile per via respiratoria, oggi scomparsa. I primi casi sono stati riscontrati…”

“Ok fermati Iris.”

Su questo, ci siamo. Sembra un gioco: scopri il senso nascosto dietro alle lacune di informazioni.

E’ bene ricordare che, in base alla definizione dell’Agenzia del Farmaco, queste inoculazioni dovrebbero prevenire la malattia infettiva. Di conseguenza, l’aumento della percentuale dei trattamenti dovrebbe corrispondere ad una diminuzione dei casi totali.

Tuttavia, la realtà dei fatti smentisce questa correlazione inversa.

L’articolo è corredato da tabelle e grafici ufficiali che dimostrano quanto viene affermato. “Iris, cerca Agenzia del Farmaco.”

“Agenzia del Farmaco è stata un ente di diritto pubblico, competente per l’attività regolatoria dei farmaci, attiva dal 2004 al 2023, le cui competenze furono in seguito assorbite dal Ministero della Salute.”

Ecco perché per Giovanni la chiavetta ha un valore vitale. Sarebe impossibile oggi recuperare statistiche e numeri dell’epoca redatti da enti ormai soppressi.

L’ultima parte dell’articolo descrive alcuni studi scientifici che secondo il medico che lo aveva scritto, non venivano menzionati dai mainstream media.

Uno studio dell’università di Harvard, pubblicato sull’European Journal of Epidemiology, effettuato analizzando dati provenienti da 68 stati e 2947 contee degli USA, riporta che l’incremento dei casi di Mnemosine Virus non è correlato alla percentuale di trattamenti. Inoltre, riporta che quattro dei cinque paesi con la più alta percentuale di trattamenti del pianeta, compresa tra 84.3% e 99.9%, venivano identificati (al momento della pubblicazione) come paesi ad alto rischio di contagio dal Centers for Disease Control and Prevention (CDC).

“Iris, cerca European Journal of Epidemiology.”

“Mi dispiace, nessun risultato per European Journal of Epidemiology.”

Uno studio effettuato nel Regno Unito su casi di variante Beta, pubblicato sulla rivista The Lancet Infectious Diseases, riporta che i soggetti completamente trattati hanno una carica virale paragonabile a quella dei non trattati e possono trasmettere efficacemente il virus all’interno degli ambienti domestici, anche a contatti completamente trattati.

“Iris, cerca The Lancet Infectious Diseases.”

“Mi dispiace, nessun risultato per The Lancet Infectious Diseases.”

In un articolo di corrispondenza alla rivista The Lancet, il professor Helmut Kampf lancia un appello agli alti ufficiali amministrativi, facendo notare che la frase “epidemia dei non trattati” non è giustificata dai dati e che quindi non sussiste alcun motivo per discriminare chi non si sottopone ai farmaci.

“Iris, cerca Helmut Kampf.”

“Mi dispiace, non ho capito bene; cerco Krapfen alla nutella?”

“No, Iris, cerca Helmut Kampf.”

“Mi dispiace, nessun risultato per Helmut Kampf.”

Analogamente, in un articolo di corrispondenza alla rivista su The Lancet Infectious Diseases, lo specialista di malattie infettive, il professore Carlos Francisco-Perrera, spiega che nonostante il trattamento riduca le probabilità di insorgenza di sintomi gravi e di ricovero in terapia intensiva, non sembra ridurre la trasmissibilità e di conseguenza le politiche riguardanti l’obbligatorietà del trattamento andrebbero riviste.

“Iris, cerca Carlos Francisco-Perrera.”

“Non ho capito bene, cerco giarrettiera?”

Alice sbuffa. Insomma, ciò che in parole povere aveva cercato di spiegarle Giovanni sembra essere ampiamente documentato, ma chi volesse tentare una ricerca oggi, si troverebbe di fronte a un muro costruito nel vuoto.

Come hanno fatto in tutto il mondo a far tacere queste voci, anche autorevoli?

“Semplice” direbbe Malcolm “basta manovrare l’informazione”. E come è possibile che i giornali e le TV di tutto il mondo si fossero lasciati gestire? Da quanto aveva letto in altri articoli, sempre corredati da documenti ufficiali, i Governi fecero leggi ad hoc per finanziare giornali, telegiornali e radio con lo scopo di diffondere la “giusta” informazione e contrastare le fake news che invece a loro dire circolavano sul web. Una sorta d morsa senza via di scampo per chi la pensava diversamente e non voleva piegarsi. Solo qualche indipendente, faceva sentire la propria voce stonata.

Prova allora sul motore di ricerca del darkweb e qui, proprio attraverso l’incrocio dei nominativi, si imbatte in qualcosa di cui nemmeno Giovanni forse conosceva l’esistenza: una lista dal titolo “Colpevoli di verità”.

Sono centinaia di nomi affiancati dalla data di nascita e morte, professione e motivo del decesso, nient’altro. Un link per ognuno poi rimandava a fotografie di articoli di giornali locali degli anni Venti in cui si dava notizia appunto del decesso. Tutti i medici e scienziati di cui cercava informazioni sono presenti nella lista, insieme a giornalisti, intellettuali, storici, scrittori che lei non ha mai sentito nominare. E la causa di morte, per tutti, non è naturale. Suicidi o incidenti.

Non vuol dire niente. Basta con il complottismo! Chiunque può aver creato questa messa in scena e sul darkweb ancora di più visto che è impossibile risalire alla fonte.

Alice si alza dalla scrivania di botto. “Iris, spegni il megatablet”. Con il phonefriend manda un messaggio dinamico a Lia, magari ha voglia anche lei di fare due chiacchiere, ultimamente l’ha trascurata.

Hei Lili, ho finito la ricerca, tu come sei messa? Video chiamata 3D?

Il phonefriend notifica: Lia ha visualizzato il messaggio alle 16.50. Lia sta rispondendo. Lia ha interrotto la digitazione, Lia ha spento il telefono.

Boh, forse è stata chiamata dai suoi per andare da qualche parte e non ha fatto in tempo a rispondere.

Riprende l’articolo per finire di leggerlo, anche se è stanca di arrabbiarsi, ma non ha niente di meglio da fare.

Da cosa può dipendere la correlazione tra la quantità di richiami di trattamento e l’aumentata probabilità di contrarre il Mnemosine Virus, riportata negli studi sopracitati? Sembra infatti che dopo una fase iniziale di protezione, l’efficacia dei trattamenti diminuisca significativamente in breve tempo, riducendo le prestazioni del sistema immunitario dopo circa tre mesi. È noto ormai da anni, che la stimolazione ripetuta del sistema immunitario può compromettere il suo corretto funzionamento, risultando in alcuni casi nell’insorgenza di processi di autoimmunità. Inoltre, la presenza di eventuali anticorpi non neutralizzanti, potrebbe competere con quelli che vengono prodotti dall’immunità naturale. Non a caso, l’11 gennaio 2022 il capo della strategia vaccinale dell’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA), Massimo Cavalieri, ha rilasciato una conferenza stampa nella quale ha espresso seri dubbi sulla somministrazione ripetuta dei richiami, che potrebbero «sovraccaricare il sistema immunitario». È solo un’ipotesi, ma questo potrebbe concorrere a spiegare perché Israele, una delle nazioni più trattate del pianeta, presenta il più alto tasso di casi pro capite al mondo. Il 6 gennaio 2022, il professore Ehudimi Qimerion della Facoltà di Medicina dell’Università di Tel Aviv, ha scritto una lettera aperta al ministro della salute israeliano nella quale critica aspramente la gestione dell’epidemia. Nella lettera, l’immunologo fa presente che alla fine la verità viene sempre a galla ed esorta il ministro ad ammettere pubblicamente il fallimento.[2]

Questo continuare a scavare nel passato le ha fatto venire mal di testa. Accende ancora una volta il megatablet, ma questa volta per vedere una puntata della sua serie preferita. Con Lia e Rachel hanno organizzato diverse maratone in condivisione video gli anni addietro. Parla di un gruppo di ragazzi della loro età e della competizione senza esclusione di colpi per avere il punteggio del CBC più alto. Intrighi, segreti, colpi bassi, amori, tradimenti si succedono in un ritmo serrato che Alice sa bene avere poco di realistico ed essere funzionale al puro intrattenimento.  Certo, senza i commenti delle sue amiche non sarà la stessa cosa, ma ha bisogno di distrarsi.

Appena iniziata la puntata però, rimane interdetta; c’è qualcosa che non le torna, qualcosa che non aderisce alle sue aspettative. Non riesce a capire di che si tratta. L’ambientazione è sempre la stessa,  le case dei protagonisti, le colonne sonore  e i personaggi anche.

Torna alla stagione precedente scegliendo qualche fotogramma per puntata, poi ancora indietro e indietro fino d arrivare alla prima. E lì, capisce: i personaggi, crescendo d’età con la serie, si sono fatti fare diversi interventi chirurgici negli anni. Bocca, naso, seno, sedere, zigomi, tanto che nelle ultime puntate praticamente si somigliano tutti tra loro.

Spariti i denti storti di Jason, il naso adunco di Pamela, il sederotto di Yasmine.

E lei non se ne era mai accorta.

 

XVI

Alice è sdraiata sul letto al buio. Sua madre le ha mandato un messaggio  per avvisarla che stanno rientrando. Il phonefriend le comunica anche che avverte una certa tristezza e le chiede se  ha bisogno di essere messa in collegamento con la psicologa di rione. Lo spegne.

Chissà se la madre è al corrente di tutta questa documentazione. Ma per forza, sicuramente i nonni avevano fatto di tutto per evitare che facesse i trattamenti prima del GB e lei, anche se era una ragazzina, doveva aver ascoltato i loro discorsi. L’unica cosa di cui era certa, anche se non conosceva i dettagli, era che il gruppo di dissidenza che avevano formato (forse già all’epoca si chiamava Prometeo?) si era preparato a una qualche catastrofe quale poi era stata il GB ed era riuscito ad evitare le violenze e le guerriglie urbane.

La madre le aveva accennato di un periodo durante il quale avevano vissuto in un casolare sperduto sulle colline piemontesi con altra gente, magari era stato in quella circostanza. Strapparle qualcosa di preciso sulla sua infanzia, era sempre stato un problema.

Suo padre invece era rimasto orfano durante il Great Blackout, o almeno così aveva detto o gli avevano detto.

Dopo era stato messo in un istituto governativo pieno di ragazzi rimasti senza genitori e, in effetti, ora cominciava a chiedersi come mai durante quella specie di guerra civile per la sopravvivenza, fossero rimasti in vita praticamente solo giovani e bambini, ma pochi adulti. Nessuno lo aveva trovato strano?

“Aliiii, siamo a casa!”

Riconosce quel tono di voce. È quello troppo acuto della finta allegria. “Sono in camera!”

La porta si apre lentamente e il viso della madre si affaccia timido: “Ma sempre al buio stai?” Questa volta però non chiede a Iris di accendere la luce. “Tutto bene? Come è andato il weekend?”

“Bene, bene, ho finito la ricerca di A.I.A.”

“Non ti sei sentita troppo sola?”

“Ma no, ho fatto le solite chiamate sensoriali interminabili con Lia!”

“Che fortunata! Ai miei tempi queste cose non c’erano, le video chiamate erano così tristi senza il 3D e la realtà aumentata!”

“Lo so, me lo avrai detto un milione di volte!”

“Già, che vuoi farci è l’età.” Accompagna la frase con una risatina in falsetto. “Hai mangiato?”

“Sì, sono a posto.”

“Anche noi abbiamo mangiato in treno. Credo che ce ne andremo dritti a letto. Buona notte.”

“Aspetta!” Alice accende la luce e le va incontro per darle un abbraccio, ma lei si copre gli occhi, come accecata e arretra: “Hei, non me l’aspettavo!” dice sempre con la vocina. Poi le va incontro di slancio, appoggiando il viso sulla sua spalla: “Da quant’è che non mi dai più il bacio della buona notte?” dice attutita dal contatto col pigiama. “Notte.” E si volta di scatto senza guardarla in faccia. Alice non dice niente, ma ha intravisto le profonde occhiaie che la segnano. Quindi Giovanni sapeva quello che stava dicendo.

Ma, nonostante la preoccupazione per la madre, gli occhi sono pesanti; l’esperienza che ha vissuto sembra distante e lenta si confonde con i primi frammenti di immagini che restano sospese senza trasformarsi in sogni.

Non fa in tempo ad addentrarsi nel sonno, che viene svegliata da dei rumori. Nonostante siano sommessi, ne avverte le vibrazioni come strisciassero sul pavimento e lungo i muri e si insinuassero dentro di lei. Dopo qualche secondo in cui tenta di snebbiarsi la mente, li sente di nuovo. Vengono dalla camera dei suoi genitori. Si alza e si avvicina alla loro porta chiusa e lì avverte in modo distinto i mugolii di sua madre che piange e la voce bassa e avvolgente del padre che la consola.

“Tesoro, ti prego. Vieni qui, lasciati abbracciare.”

“No” sussurra lei.

“Amore, è una cosa che stiamo vivendo insieme. Non mi escludere.”

Il pianto si fa più violento e indifferente alla notte.

“Non avevamo scelta, lo sai. È la legge”, “Per favore, guardami”, “Così la fai sembrare colpa mia.”

“Puoi stare zitto? La tua voce mi fa stare peggio.”

Non aveva mai sentito sua madre rivolgersi così a nessuno. Con la voce spezzata dal tentativo fallito di contenere una violenza animalesca.

“Vuoi che chiami il medico?”

“Non è un problema fisico.”

“Lo so, ma magari ti può dare dei tranquillanti.”

“Certo, così mi zittisci e finalmente puoi tornare a dormire.”

“Tesoro, basta, così ci facciamo solo del male. Siamo sempre stati d’accordo entrambi sul fatto che la ‘Legge sul figlio unico’ sia giusta. Stiamo contribuendo alla decrescita demografica e, in quanto cittadini responsabili, facciamo quello che dobbiamo anche quando è contro il nostro interesse o desiderio.”

“Certo, mentre invece il tuo capo e tutti quelli come lui creano la propria dinastia indisturbati!”

“Sappiamo entrambi che ‘i migliori’ hanno alcuni privilegi, ma anche noi, se ci giochiamo bene le nostre carte, potremmo un giorno…”

“Ho quarant’anni! Un giorno di quei privilegi non sapremo che farcene! E poi, da quando il nostro obiettivo nella vita è avvantaggiarci sugli altri?”

“Ma che ti prende? Mi sembra di sentir parlare tuo padre!”

“Vaffanculo.”

Alice la sente alzarsi di scatto e se la trova davanti con la porta aperta. Gli occhi cerchiati di nero, i capelli arruffati e il cuscino in mano: “E tu che ci fai qui?”

“Ho sentito dei rumori” dice in un soffio.

“Torna in camera tua” le risponde senza guardarla e scartandola di lato per andare a dormire sul divano.

Obbedisce alla madre e torna con le gambe traballanti nella sua stanza. Vorrebbe andare di là ad abbracciarla, dirle che, se questa cosa la fa soffrire così, non può essere giusta. Dirle che accettare sempre passivamente le decisioni altrui la farà impazzire. Ma sa già che lei si sforzerebbe ancora di più di mettere su un bel sorriso, si violenterebbe per domare la voce tremante e dirle che va tutto bene e che è stato solo un momento.

 

XVII

Si trova a teatro con il biglietto in mano. È di cartoncino nero e, nella penombra, fatica a leggere il numero scritto in grigio. Strizza gli occhi: 130.

Comincia a muoversi tra le file di poltrone in velluto rosso in cerca del suo posto, ma le poche persone sedute levano esclamazioni di protesta, anche se lo spettacolo non è ancora iniziato: “Insomma! Basta, siediti!”, “Ma si può sapere cosa cerchi?”, “Cos’è questa fissazione dei numeri! Ma non lo sa questa che qui ci si siede a caso?”

Alcuni scuotono la testa, altri bisbigliano tra loro, gli sguardi accigliati sono tutti su di lei, ma Alice non molla. Se le hanno dato un biglietto con un numero, un motivo ci sarà!

Il prezzo del biglietto varia a seconda della posizione. Anche se non è mai stata a teatro, questa cosa la sa. Non le sembrerebbe giusto sedersi in prima fila, in uno dei posti migliori, se non è quello che le è stato assegnato. D’altra parte, se la regola qui è disporsi a caso, può anche essere che la sua poltrona sia stata occupata da qualcun altro.

Eppure continua, piegata in due, a cercare di leggere i cartellini sui posti che però spesso sono mancanti o di difficile lettura. Quelli presenti infatti sono tutti diversi: alcuni stampati, altri scritti a mano con calligrafie antiche piene di fronzoli o decorati, come le miniature medievali.

Ma, ancora più assurdo, sono collocati sulle poltrone senza alcuna logica apparente, nessuna sequenzialità numerica. Vede un 91 scritto in bianco su fondo nero, come a gesso su una lavagna, accanto a un 170, inciso su piastrina di plastica.

Incredula si rivolge a una signora seduta lì accanto: “Mi scusi, ma è normale questa cosa? Non riesco a capire che ordine seguano. Vanno forse per file verticali?”

La donna ha la faccia di uno che Alice ha visto sulla copertina di un libro dei nonni; non l’ha letto, ma ricorda il titolo: “Scritti dal carcere”.

Lei/lui non risponde; si limita a spingersi alla radice del naso gli occhialetti tondi e a serrare le labbra. Chiede ad altri se possono spostarsi quel tanto per leggere i numeri sulle loro poltrone, ma quelli la ignorano alzando gli occhi al cielo.

Dello spettacolo non le importa più, anzi quando le luci si abbassano, a far intendere che ormai è ora, non si volta nemmeno in direzione del palcoscenico.

All’improvviso però spunta da chissà dove uno sciame di bambini di varie età che inizia a correre nello spazio tra il palco e la prima fila. Stanno giocando ad acchiapparella.

Le persone sedute sembrano non accorgersene, continuando a parlare tra loro come niente fosse.

Mentre osserva la loro indifferenza, nota un bambino che è seduto infossato in una poltrona, come si stesse nascondendo dagli altri.

È vestito da Papa, con la mozzetta verde però, non cremisi, lo zucchetto bianco e lo scettro.

Alice gli si siede accanto e nota che dalla veste spuntano i piedi nudi.

Sono come quelli dei neonati, con le piante convesse di chi ancora non cammina.

Spinta da una forza irresistibile, inizia a fargli il solletico. Il bambino ride divincolandosi e agitando le gambe, poi si siede dritto e le dice: “130 vuol dire 13; pensa alle Terme di Diocleziano.”

Al risveglio Alice sbatte ripetutamente le palpebre nel tentativo di liberarsi dai brandelli di sogno che sembrano fatti di melassa talmente le incollano le ciglia.

Si strofina la faccia coi palmi e finalmente riesce a ricongiungersi col suo corpo, seduto nel letto della camera.

Corre a prendere il taccuino nell’armadio e annota il sogno con il maggior numero di dettagli che riesce a ricordare; dopo l’Istruzione Unica dovrà tornarci su perché avverte che si tratta di un messaggio.

“Iris, che ore sono?” chiede sbadigliando.

“Le 7.15.”

Strano che sua madre non sia ancora venuta a svegliarla; probabilmente non lo farà, anzi il silenzio che avverte in casa, le suggerisce che forse oggi i genitori non lavoreranno in smart working.

Si sente in parte sollevata di poter rimandare tutto a data da destinarsi, le sembra già un successo riuscire ad alzarsi considerato lo zaino pieno di mattoni che si sente caricato sulla schiena. Forse sta covando qualcosa e dovrebbe rimanersene a letto, ma ha l’esposizione della sua tesina oggi e poi è il compleanno di Lia.

Anche se i regali non sono ammessi, le ha preparato un bigliettino (di carta!) disegnato e colorato da lei con all’interno una poesia di Emily Dickinson:

Io canto per consumare l’attesa:

annodarmi la cuffia,

richiudere la porta di casa,

non ho altro da fare

 

finché, al suo avvicinarsi

ci facciamo incontro al giorno,

e ci raccontiamo l’un l’altro la storia

di come cantammo – per scacciare la tenebra

 

XVIII

Dopo la prima ora di Commercial English, Alice si avvicina al palco per presentare la sua relazione sull’inserimento dell’intelligenza artificiale nei conformatori.

Si sente la testa ovattata e uno strano flusso acido risalirle l’esofago, ma non è nervosa per l’esposizione in pubblico.

Fa un respiro profondo e inizia a parlare al microfono, grata almeno di non dover sentire la sua eco rimbalzare nell’anfiteatro, ma solo la voce arrivarle netta e un po’ metallica nelle cuffie.

Sta snocciolando dati e statistiche senza nemmeno pensare a quello che dice, sta andando bene le pare, ma l’acido è arrivato alla bocca e, come a casa, si impossessa delle parole.

Vorrebbe vomitare così si libererebbe, ma le tocca rigirarsele con la lingua, come fossero caramelle, ripulirle dell’acido e poi pronunciarle.

Eppure nessuno sembra accorgersi di quello che le sta accadendo, nemmeno lei in effetti ascoltandosi, indovinerebbe lo sforzo che avviene nella sua bocca a deglutire ettolitri ed ettolitri di saliva che le raschia in gola come lava.

“Il 130 è un 13.” La voce del Papa bambino le risuona nelle orecchie coprendo la sua stessa voce. “Pensa alle Terme di Diocleziano” aggiunge.

Ed è lì che un conato la scuote completamente. Vede allora Lia e Rachel osservarla con attenzione, ma sono le uniche.

Per fortuna ha quasi terminato, manca solo la conclusione sugli innegabili benefici dell’inserimento di secondini androidi nei conformatori e può finalmente tornarsene al suo posto.

Appena seduta, il giramento di testa aumenta, anziché diminuire. Lia la prende al volo prima che perda l’equilibrio, fa un cenno alla tutor per farle capire che deve accompagnare Alice in bagno e quella dà il permesso.

Tutto vortica talmente in fretta che l’unica cosa che percepisce sono le mani di Lia strette sulle spalle che la guidano, come fosse un fantoccio.

Una volta in bagno, le fa appoggiare la schiena sull’asse chiuso del water e le gambe alzate  al muro; poi prende un fazzoletto di stoffa, lo bagna con acqua fredda, lo strizza e glielo tampona sulla fronte, sui polsi e dietro le ginocchia.

Il sollievo è immediato; la tazza sotto di lei smette di ruotare su se stessa e può aprire finalmente gli occhi senza temere di rigettare l’anima.

Vede il viso di Lia chino su di lei.

“Stai meglio?” le sussurra.

Alice prende dalla tasca della gonna il biglietto per il compleanno dell’amica e glielo porge: “Era tutta una scusa per darti questo. Auguri.”

Lia prende il biglietto con due dita, come se avesse paura di contaminarsi, ma sorride: “Grazie Cice.” Lo apre, anche se con una certa riluttanza e i suoi occhi saettano da un verso all’altro della poesia. Vede che si soffermano qua e là, senza però cambiare espressione. Le sorride ancora, ma si muove a scatti; le fa venire in mente quei video dei cerbiatti in periodo di caccia.

Alice nel frattempo si siede; si sente come il passeggero di una nave che mette piede sulla terra ferma dopo un lungo viaggio.

Lia la osserva attentamente prima di dirle: “Che succede?”

“Niente, devo aver mangiato qualcosa che mi ha fatto male, ma ora sto meglio.”

“Dai, puoi darla a bere ai tutor, ma io ti conosco. Si vede lontano un chilometro che qualcosa non va. E poi questo!” Dice, sventolando il biglietto.

È il gesto a farle lasciare definitivamente il timone. Ci ha provato a tenerlo saldo per tutta la tempesta, ma ognuno ha i suoi limiti. Vuole disperatamente che lo prenda qualcun altro, o almeno lo divida con lei.

“Sta andando tutto a rotoli.” Mormora.

“Che vuoi dire?”

“La mia famiglia… non so se i miei genitori…”

“Capisco. Beh, lo so, è doloroso, però vedrai che sapranno starti vicini anche dovessero decidere di divorziare. Guarda Rachel, piuttosto che continuare a sentirli litigare…”

“Sì, lo so, ma non è nemmeno questo. È proprio che mi sembra tutto sbagliato.” Lia la guarda aggrottando la fronte. Alice fa un gesto vago, col braccio: “Tutto questo, il nostro mondo.”

“Non è che sei stata un po’ troppo su Proton?”

“Ma tu lo sapevi che esistono dei gruppi ribelli?”

Lia si guarda intorno “Cice, che cavolo stai combinando?”

“Io mica lo so se qui fa per me.”

“Senti, sei stanca, non ti sei ancora ripresa e non sai quello che dici. Tra pochissimo verranno a controllare se siamo ancora vive. Vedi di farti mandare a casa.”

“Il 13 è un numero primo vero?”

“Cice, mi fai paura. Cos’è? Deliri adesso?”

“Invece il 130 no.”

“Ok, forse dovrei chiamare qualcuno…”

“E’ evidente che qui non c’è spazio per i numeri primi, ma io ancora non so cosa voglio essere.”

Lia fa per andarsene scuotendo la testa, ma Alice la prende per un braccio costringendola a voltarsi: “Se tu conoscessi un modo per scappare, lo faresti?”

La porta dei bagni si apre e la tutor entra con fare marziale: “Tutto bene alunna IIEViola?”

“Sì, ora mi sento meglio” risponde “anche se forse, per evitare di infettare tutti gli altri, sarebbe meglio andarmene a casa.”

La donna ha un moto di disgusto nelle labbra e fa un passo indietro; la squadra con le palpebre strette, poi, soddisfatta del suo aspetto effettivamente pietoso: “Avviso la Direzione.”

 

XIX

Il giorno dopo convince i suoi a lasciarla ancora a casa.

Loro la evitano, escono al mattino molto presto e lei non ha la più pallida idea di dove vadano.

Se anche volesse seguire il consiglio di Giovanni, al momento per stare vicino alla madre, dovrebbe essere la sua borsa.

Si sente così debole da sembrarle che il materasso e le lenzuola la inghiottiscano lentamente, come sabbie mobili. Così sta ferma, non muove nemmeno un muscolo, trattiene il respiro perché la sensazione di essere inglobata al rallentatore, duri il più possibile.

Vorrebbe raccontare il sogno a Giovanni, chiedergli il suo punto di vista, ma, anche se non lo saprebbe spiegare ad alta voce, sente di averne intuito il senso anche da sola. Non capito in termini razionali, ma ricevuto in un codice che dispiega direttamente l’azione, come dialogasse con un secondo cervello nascosto chissà dove che manovra autonomamente il corpo.

E così lascia che le sabbie mobili blocchino per un po’ questa azione e congelino per sempre questo preciso istante in cui niente si è ancora fatto, il momento del pre-agito, non ancora condizionato da errori, rimorsi o rimpianti, saturo di ogni possibile futuro.

Forse si stava assopendo, quando un picchiettio alla finestra la costringe a uscire dalla bolla zen. È Fabrizio. Lo guarda inclinando la testa di lato come farebbe lui; le sembra incredibile abbia vent’anni. Attende paziente un messaggio per lei, una canzone, una poesia, ma Fabrizio oggi è silenzioso. Allora si accorge di un cilindro metallico attaccato alla zampa. Lo fa entrare nella stanza e chiude la finestra: “Anche piccione viaggiatore! Sei pieno di risorse!” gli dice intanto che slega il contenitore e lo carezza sotto la gola. All’interno c’è un biglietto arrotolato.

“Cara Alice, siamo riusciti a far pervenire le tue informazioni agli altri gruppi di tutto il paese. Stiamo coordinando un’operazione di sabotaggio informatico. Se le cose procedono secondo i piani, tra un paio di settimane al massimo, chiunque accederà a Internet Plus, potrà vedere per 24 ore solo ed esclusivamente un nostro filmato. Stiamo ultimando il montaggio. Dopo quest’azione, credo non sarà più possibile per noi comunicare, tanto meno incontrarci, almeno per un periodo di tempo piuttosto lungo. Per questo ti avviso. Uno dei nostri sarà al solito posto ogni sera per due settimane ad aspettarti. Qualunque sarà la tua decisione, la rispetteremo. Sai cosa fare di questo messaggio.”

Lo brucia immediatamente. “Fabrizio, aiutami a prendere una decisione” gli dice mentre osserva la danza dei lembi fagocitare e polverizzare la carta.

Il merlo tace, nemmeno una citazione di Thoreau a incoraggiarla, una canzone di Bob Dylan, una poesia di Brecth, niente; anzi sembra impaziente di andarsene. Gli apre la finestra e lui spicca subito il volo, senza manco salutarla.

La notizia del poco tempo rimastole per decidere avrebbe dovuto mandarla in ansia e invece l’acidità gastrica è sparita.

Dopo aver gironzolato tutto il giorno per casa, trascinandosi dal letto al divano, senza ricevere chiamate o messaggi da nessuno, accoglie con entusiasmo persino il rumore dello sblocco della porta d’ingresso.

Per primo si trova davanti il padre. Quando la vede, accoccolata sul divano con la copertina in grembo, raddrizza la schiena e subito sembra più alto di diversi centimetri.

“Dobbiamo parlare.”

Alice immagina vogliano affrontare finalmente la questione dell’aborto anche con lei, ma lo  sguardo della madre che sbuca dalla spalla di lui ancora vestita del cappotto nero, è spaventato più che arrabbiato o triste come nei giorni scorsi.

Rimane in silenzio intanto che i genitori si liberano dei soprabiti e li appendono; il padre prende una sedia e le si pone di fronte, mentre la madre le si siede accanto sul divano.

“Abbiamo appreso che sei coinvolta in qualcosa di molto grave” parte lui senza preamboli. Alice sente il cuore scenderle alle caviglie.

“Sono venuti due agenti del Controllo e Sicurezza in ufficio da me oggi. Dicono di aver ricevuto una segnalazione di qualcuno che ha saputo che stai frequentando persone poco raccomandabili.”

Il padre, con una gamba accavallata, si ispeziona per un attimo l’orlo del pantalone. “Naturalmente io all’inizio non gli ho creduto; ti ho persino difeso! Alice! La mia bambina, così brava e ubbidiente? Impossibile!”

La madre continua a cambiare posizione sul divano e sembra non sapere dove mettere le mani.

“Poi mi hanno mostrato questo” ed estrae dalla sua borsa il biglietto di auguri che Alice ha fatto per Lia. “A parte la chiara violazione del regolamento su uso e consumo della materia, a parte la domanda lecita di come tu abbia fatto a procurarti della carta, fin qui c’era ancora la speranza che si trattasse solo di acquisti sul dark web.”

Alice sussulta appena, cosa che non sfugge a suo padre che sembra avvezzo a questo genere di interrogatori. “Non siamo mica così sprovveduti da non sapere quello che succede sul dark web, Alice. Ma finché si tratta di spesucce di poco conto fatte da ragazzini, come la tua amica Lia, ci limitiamo ad agire sul punteggio del CBC, sempre che il colpevole non abbia qualcosa da dirci che dimostri che ha capito la lezione e che vuole rimediare.”

Questa cosa del noi è l’aspetto che la terrorizza di più. Sua madre intanto sembra aver stabilito che le mani possono stare allineate sulle ginocchia.

“Soprattutto quando le sanzioni sono alte, diamo così la possibilità di non partire subito in difficoltà col punteggio e di testare anche la volontà di collaborare. Ma mai mi sarei aspettato che dall’indagine saltasse fuori il tuo nome.”

“Ma Giorgio” interviene sua madre “è solo carta, potrebbe averla presa ovunque.”

“E’ vero. Ci sto arrivando. Quello che ci ha insospettito maggiormente infatti è quello che c’è scritto dentro. Una poesia, diciamo critica.”

La madre ha un moto veloce degli occhi verso Alice.

“C’è un solo modo per venire a contatto con questa roba, così mi hanno fatto vedere i filmati delle telecamere di quartiere per vedere se riconoscevo mia figlia e sì, me la vedo passeggiare di notte, entrare in un palazzo, sparire per ore e poi tornarsene a casa il giorno dopo come niente fosse.”

Il pulsare del sangue nelle orecchie è così forte che alcune parole deve leggerle sulle labbra del padre per capirle.

“Il palazzo è vuoto. Si può sapere dove sei stata?”

Per un attimo il cuore rallenta, non sanno tutto. Le cade lo sguardo sulle mani della madre, così contratte a stringere le rotule, che le nocche sono diventate completamente bianche.

Ma poi lui aggiunge: “Ci è stata fatta una proposta. Se fai da esca per farci catturare questa gente, né tu, né noi avremo ripercussioni.” Poi, rivolto alla moglie: “Dimostra che le mele marce in questa famiglia non ci sono più.”

“Altrimenti?” balbetta in un filo di voce.

“Verrai espulsa dall’Istruzione Unica e andrai in un conformatorio minorile per un po’. Ovviamente per la mia carriera sarebbe un disastro, considerato il ruolo a stretto contatto col Ministro che ricopro. Probabilmente dovrei dare le dimissioni.”

Il padre ritiene concluso il colloquio, si alza e fa per dirigersi in studio, poi ci ripensa, si gira e aggiunge: “Rimarrai chiusa nella tua camera fino a quando non avrai preso la decisione giusta. Sai bene qual è.”

Alice scoppia a piangere non appena lui sparisce dalla sua visuale. Ripiegata su se stessa cerca di scorgere la madre in faccia, ma lei è rimasta lì, nella stessa posizione di prima, con lo sguardo fisso sul tavolo da pranzo.

“Mamma…” prova a dirle. Lei allora scatta in piedi e alza le mani, come a bloccare qualsiasi cosa potesse arrivarle addosso. “Mamma…” ci riprova. Ma lei indietreggia scuotendo le mani e la testa e si allontana.

Il phonefriend comincia a vibrare; la faccia sul display è quella di Rachel. Alice rimane confusa per un attimo. Era convinta le fossero state bloccate tutte le chiamate in entrata, ma forse solo per Lia e in ogni caso nessuno pensava mai a Rachel come a una minaccia.

Una volta in camera sua, risponde: “Hei Rach” dice col tono più naturale possibile.

“Cice, come stai?” le chiede una voce tremula “So tutto del casino in cui sei finita.”

Alice oscura la funzione video e poggia il phonefriend sul letto, così da poter parlare stando sdraiata supina.

“Come hai fatto a saperlo?”

“Me lo ha detto Lia prima che scoprissero della tua fuga notturna. Aveva già fatto il tuo nome e sospettava venisse fuori qualcosa, ma non pensava di così grosso!”

“Quella stronza! È una traditrice, perché lo ha fatto?”

“E’ per questo che ti chiamo. Non odiarla Cice, ti prego. Hanno aspettato il giorno del suo compleanno, capisci? Fanno così. La spiavano già da tempo, ma hanno aspettato di usare le informazioni su di lei quando potevano farle più male.”

“Ma perché fare il mio nome? Perché trascinare proprio me nel fango con lei?”

“Avevano un elenco di infrazioni sufficienti ad azzerarle il Credito e bloccare il conto corrente dei suoi genitori. Erano furiosi ovviamente. Oltre ad essere puniti anche loro per non averla tenuta d’occhio. Quelli del Controllo e Sicurezza le hanno promesso di non togliere i punti a nessuno della sua famiglia se avesse avuto delle informazioni utili.”

“Non  posso credere che stia succedendo.” dice strofinandosi i palmi sulle palpebre “Come ne esco adesso?”

“Lia è disperata per quello che ti ha fatto. Sa che è orribile, ma non aveva scelta.”

“Stronzate! C’è sempre un’altra scelta! Solo che lei ha deciso per la via più comoda! Non la perdonerò mai!”

“Ascolta Cice, ti vogliamo aiutare. Possiamo ancora uscire da questa storia senza troppe ripercussioni e tornarcene alla nostra solita vita. Ci lasceremo tutto alle spalle.”

“Che intendi?”

“Se mi dici chi sono questi con cui sei venuta in contatto e come trovarli, lo riferirò io al CS, così i ribelli non sapranno mai che sei stata tu e sarai al sicuro.”

Alice afferra il phonefriend e riattiva il video. Vuole vedere la faccia di Rachel, vuole verificare che sia davvero lei, che non sia stata sostituita da un androide con la sua voce. Il viso dell’amica ricompare sul piccolo monitor. Nessuna traccia di imbarazzo, nessun segnale per farle intendere di avere una pistola puntata alla nuca.

“Rach, sei seria?”

“Cice, non c’è altra soluzione. E poi, come puoi fidarti di quella gente? Non li conosci neppure! Non so cosa ti abbiano detto, ma dovresti dar retta ai tuoi genitori, a noi che vogliamo il tuo bene.”

Ancora questo parlare al plurale.  Prima aveva detto qualcosa come “fanno così, aspettano di avere qualcosa per ricattarti”.  Alice sposta lo sguardo sull’armadio, poi su Rachel. Avevano fatto così anche il giorno del suo compleanno il mese scorso? Era una chiamata raccatta punti?

Sente la medaglia imprimersi sulla pelle del petto come fosse incandescente.

Prende il phonefriend, va alla finestra, la apre e, senza nemmeno interrompere la comunicazione, lo lascia cadere.

Osserva il viso di Rachel ruotare su se stesso, sente la sua voce affievolirsi mentre la chiama e le chiede che sta succedendo.

Poi lo schianto.

Più tardi, ordinata la cena e consegnata da Brandt, la mangia in camera nel silenzio più assoluto.

Dalle altre stanze della casa non arriva alcun suono. All’ora in cui di solito i genitori vanno a dormire, si mette con l’orecchio attaccato alla porta e in effetti dopo poco avverte un fruscio seguito dal rumore della maniglia. Attende ancora un quarto d’ora, fino a che non le arriva il russare del padre. A quel punto prende uno zaino, lo riempie di tutte le cose che aveva recuperato dalla casa dei nonni, se lo mette in spalla e in punta di piedi esce in corridoio.

Per un attimo è tentata di trovare il modo almeno di salutare sua madre, ma sa che non è possibile. Si riempie d’aria i polmoni come dovesse farsi la strada in apnea ed espira forte. Avvicina il polso alla porta di casa, ma la serratura non scatta.

“Iris, apri la porta” prova a sussurrare, ma niente. Devono aver cambiato codice. L’unica possibilità è contattare Giovanni attraverso il dark web, per forza. È un grosso rischio, ma non ha alternative. Si volta per tonare indietro e la madre è lì, davanti a lei.

Ha qualcosa in mano e glielo sta allungando. “Tieni, è un passamontagna. Mettilo in testa, ti coprirà tutta la faccia, a parte gli occhi.”

Alice lo prende lentamente, senza distogliere lo sguardo da quelle pupille ingrandite dalla penombra che la fissano. Persino al buio brillano lucide.

Si abbracciano.

“Mamma, ti prego, vieni con me.”

“Non posso.”

“Sì che puoi, anzi, devi!”

“Non l’ho fatto quando è stato il mio momento. Ho scelto di restare qui con tuo padre ed è quello che farò anche ora. Lui ha bisogno di me.”

“Anche io!”

“No, non è vero. E poi, posso aiutarti meglio da qui.”

La stringe forte, poi avvicina il polso alla porta e la spinge fuori. “Ora vai e abbraccia Giovanni da parte mia.”

“Un attimo” dice bloccando la porta con un piede. Si sfila la medaglia dal collo e la porge alla madre tenendola dalla catenina.

Lei la accoglie con le mani a coppa fino a che Alice la lascia. Poi la osserva qualche secondo scuotendo la testa.

“Spero potrai perdonarmi un giorno.”

“Un giorno ti verrò a prendere. Fatti trovare pronta.”

Fuori dal palazzo l’aria è trasparente, tanto da far sembrare le cose più vicine tra loro.

Alice si infila il passamontagna. Odora di madre.

Si tira sulla testa il cappuccio della felpa e inizia a correre, questa volta senza mai fermarsi.

 

[1]  Al villaggio, senza pretesa/Ho cattiva reputazione/Che io mi sposti o che resti quieto/Io passo per un non so che/Non faccio tuttavia del torto a nessuno/Seguendo il mio cammino di piccolo individuo/Ma le brave persone non amano che/Si segua un’altra strada che la loro…/No, le brave persone non amano che/Si segua un’altra strada che la loro…/Tutti sparlano di me/Salvo i muti, ciò va di sé.

[2]   L’articolo originale e integrale, di Panagis Polykretis – Biologo, PhD in Biologia Strutturale, dal titolo “Obbligo vaccinale: si può parlare di misura dettata dalla scienza?” è stato pubblicato da L’Indipendente Online il 02 febbraio 2022.

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